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Скупой в своих мыслях [Lorenzo Calogero] (epub) читать онлайн

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Ma perché da parti uguali erme divise

non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri

sopra i tuoi fiori nella medesima

aridità che ora scintilla essa balena

e ti accorgi di essere più solo.

Avaro nel tuo pensiero,

la stessa sostanza arida t’invischia

solo per tuo diletto.

Erme cinte di rose

appaiono già tutte le tue cose.

Nato e a lungo vissuto appartato a Melicuccà (Reggio Calabria), Lorenzo Calogero (1910-1961) studiò Ingegneria e poi Medicina a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica fino al 1955, dedicandosi intanto alla filosofia e alla poesia. Tentò di stabilire contatti con poeti, riviste e editori importanti ma senza successo, mentre la scrittura prendeva sempre più la forma di un destino e di una vocazione assoluti. È morto in circostanze mai definitivamente chiarite, nella sua casa di Melicuccà, nel marzo 1961. Dopo la morte, nel 1962, scoppiò un vero e proprio caso letterario e Calogero venne salutato come un nuovo Rimbaud. Poi, improvvisamente, di nuovo l’oblio. La storia letteraria ha lasciato troppo a lungo nell’ombra una delle voci più alte del Novecento poetico italiano.

Poesia / 54


Lorenzo Calogero


Avaro nel tuo pensiero

A cura di

Mario Sechi e Caterina Verbaro

Il progetto editoriale per la pubblicazione dell’opera

Avaro nel tuo pensiero di Lorenzo Calogero

viene realizzato grazie al contributo di UBI Banca Carime,

e attraverso la cooperazione scientifica fra l’Università della Calabria,

che custodisce l’Archivio del poeta,

e l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari.

© 2014 Donzelli editore, Roma

Via Mentana 2b

INTERNET www.donzelli.it

E-MAIL editore@donzelli.it

Progetto grafico di Carlo Fumian

ISBN 978-88-6843-344-4


Indice

«Avaro nel tuo pensiero»: la poesia come surrogato della felicità
di Caterina Verbaro

Nota al testo
di Mario Sechi

Ringraziamenti

Avaro nel tuo pensiero

Sebbene le clemenze

Sono in sogno

Se i moniti sono solidi

Se i giorni sono profughi

Decaduto ogni giorno

Non vale gioia densa o silenzio

Forse da autunnali chiome

Ti siedi fra noi

In questa sera in cui s’accendono

Sono moniti gli accenti

Lugubri magie sono le tue parole

La verità comprende

Scarno saliva un lume

Ogni minuscolo attimo

Quando mi maraviglio

Ora so. Poteva pure non essere

Forse perché volubile

Non mi piace intendere

Sento capricciosi eventi

A prova non più erano

In segni sopra le mutate cose

Perché accadrà crudelmente

Quando i monti

Tu potevi non chiamarmi

Forse l’annuncio vano delle parole

Non so quali siano

Un punto, una sagoma

Non mai il mio riso

È permanentemente vero

Come acqua cedua

Perché da tenui parti

Se savio mi compongo

La vita chiomata, al largo, dei sogni

Son distici a catena e l’innegabile clemenza

Se accanto al declinare

Non mi ricorderò mai più di te

Gracili corolle erano

Se qualcosa timido risuona

Ritorna il sogno. Non più mancare

Quando con impalpabili gote

Se passibile l’eco

Perché amalgame non siano

Puoi ora ai margini

Quando non più lugubre

Ricordo cosa fosse simile alla ruota

Se mutate ombre

I traguardi frugano le ore

Non più ti domando

Mi conviene sotto archi

Forse non fu più che sogno

Il sole delle case ha invaso le cime

Per quanto gli screzi sian folti

Tu pure sapevi nei segni

A rilento le stesse sostanze

Non posso muovermi

Quando remoto al dolore

Quando la vita fu una rapida scintilla

Non posso dissuadermi anch’io

Non era più una pallida rosa

Sono arsi i movimenti

Non altra sagoma era

Odo qualcosa con ordine

Qua conobbi quanto fragile era

L’aria grigia esterrefatta

Scende una chiarità oscura

Cadono vani sogni

Quali beati lampi

Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro

Forse perché partecipi di un modo esatto

Sono minacciosi i giorni

Non sono per te più di rimando

Sono risospinto indietro

Gamme lucenti sui tuoni

Quando dai rigori chiusi

Intima una vita liquida

Nella vita una piega risuona

A discreto suono

Gemme roride sono una nascita

T’appoggi o tu sei simile

Quando da monotone cose

Avaro nel tuo pensiero

Roso il sangue, una verbena

Vaghe gioie diafane

Non voglio ricordarmi più di te

A parti uguali, non più divise

Sebbene ombre vive

Fumigarono i giorni

Perché molte cose si ebbero

So di non esserti nato accanto

So che non occorre tempo

A tardo strazio la notte era

Sopra mormorii quadrati

Lontano sui misteri guardi

I sogni non sono proclivi

Rigidamente inclina

La selva conosce corrosa se stessa

A mutati sensi i venti gridano

La pioggia sorridente

Naufraghe e lente le ore discorrono

Alla fine i tuoi pensieri vagarono soli

Quando densa una pace era già una schiera

Perché di anno in anno

Ancora sogni. L’anima vagante

Se di mattino ti alzi

Fuggevoli gridi tocchi

Non volubili onde

Sapevi addormentarti

Sui monti sapevi vagare

Io sapevo esserti diverso

Il tempo della inumidita distanza

Quando qualcuno si riconsola

Pure perché il sapere sia più giusto

La fonte era umida degli occhi

Per quanto egli amò con gloria

Erano rose d’inverno

Forse di te non apprenderò

So, non valeva altra gioia

Quando da la solitudine

Se preso dalla sagoma

Nuvole sono già strano enigma

Non valgono mutevoli onde

Non altra lagrima amata

Se disperatamente l’anima

Non altra aria ebbe senso

In una triste ora

In erranti canti un usignolo

Quando ne l’ineluttabile chiarezza

Se rievoco ricordo cos’era

Non era più aereo, fuggente

Se di vetro il tuo viso

A somma nudità dell’essere

Naufraghi erano i gridi

Perché un povero cuore

Notizia su Lorenzo Calogero


«Avaro nel tuo pensiero»: la poesia come surrogato della felicità

di Caterina Verbaro

Beato chi ha trovato per tempo il suo centro di vita e che veramente si trova al centro di essa! Non proverà un desiderio spasmodico di poesia, di questo surrogato della felicità, ma quanto labile.

Lorenzo Calogero, Quaderni inediti, 1936

In una delle tante riflessioni sulla poesia annotate nei suoi quadernetti neri da scolaro, Calogero diagnostica lucidamente la difficoltà di condividere il proprio universo poetico, così dolorosamente segnato dall’intransitività:

L’impossibilità di scrivere poesia proviene principalmente dall’accorgersi di non possedere dei simboli che siano validi universalmente, simboli cioè che possano essere assimilabili in tutto agli umani segni attraverso cui si compie e si trasmette la comunicazione1.

La mancanza e la ricerca di tale condivisione simbolica universale segna come uno stigma i versi e la vita di Lorenzo Calogero: la sua vicenda biografica e poetica, indissolubilmente intrecciate, sono ugualmente connotate dall’isolamento, dal soliloquio, dal mancato ascolto e riconoscimento. Privata di un centro che ne sostanzi il fondamento stabile, l’esistenza di Calogero cerca incessantemente in una poesia altrettanto defocalizzata il proprio «surrogato della felicità»2.

Nato nel 1910 nel piccolo paese calabrese di Melicuccà, dove nel 1961 morirà di abbandono, probabilmente suicida, Calogero spende la sua intera esistenza in una pratica di scrittura fluviale e ininterrotta, di cui fa fede la grande quantità di versi solo in parte raccolti e pubblicati tra gli anni trenta e gli anni sessanta. Oltre alle prime raccolte giovanili, poi riviste nel 1956 in Parole del tempo, Calogero pubblica negli anni cinquanta, sempre presso la piccola sigla editoriale Maia di Siena, nel più totale disconoscimento critico, le sue opere più importanti, Ma questo… (1955) e Come in dittici (1956). La sua consacrazione postuma si deve alla comparsa nel 1962 del primo volume delle Opere poetiche, pubblicato con grande risonanza subito dopo la sua morte dalla Lerici, e poi seguito da un secondo volume nel 1966. Quello che negli anni sessanta fu definito il «caso Calogero», puntò mediaticamente a costruire un profilo mitologico quanto patetico del personaggio, sottolineando con enfasi la disperata vicenda esistenziale del nuovo poeta maudit, enfatizzando con cinico compatimento quegli elementi biografici – la malattia psichica, i frequenti ricoveri in manicomio, il disagio e l’emarginazione sociale e letteraria, l’incapacità di vivere – in grado di attirare un’attenzione distratta e puramente emotiva sulla sua vicenda. Ma il merito di questa edizione Lerici fu comunque di rivelare l’esistenza di un arcipelago poetico ancora inesplorato. Accanto alle raccolte già edite, i volumi curati da Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi progettano e in parte realizzano la pubblicazione di alcuni testi inediti risalenti agli ultimi anni di vita dell’autore. Sogno più non ricordo compare così nel secondo volume dell’edizione, mentre il primo ospita una scelta di frammenti tratti dalle poesie scritte nella casa di cura di Catanzaro tra il 1959 e il 1960, a cui i curatori assegnano il titolo Quaderni di Villa Nuccia3. Il progetto editoriale della Lerici doveva concludersi con l’uscita di lì a poco di un terzo volume delle Opere poetiche, comprendente Parole del tempo e l’inedito Avaro nel tuo pensiero. Ma nel frattempo, scemate la tensione e l’attesa prodotte dal «caso Calogero», la crisi e poi il riassetto editoriale della Lerici milanese lasciano inconcluso il progetto e inedito il poemetto del 1955. Molti anni più tardi, tra il 1979 e il 1983, sarà Amelia Rosselli a cercare una nuova collocazione editoriale per Avaro nel tuo pensiero, di cui pubblica intanto alcune poesie sulla rivista milanese «Tabula» e a cui dedica uno studio di grande acume critico4. Ma anche questo progetto di pubblicazione, perseguito dalla Rosselli a lungo e con competente passione empatica verso le sorti calogeriane, è destinato a fallire, e il poemetto del ’55 resterà inedito.

Dopo molti anni e molte vicissitudini, si tratta dunque ora, con questa prima edizione integrale di Avaro nel tuo pensiero che siamo lieti di presentare, di riannodare il filo interrotto tra la poesia di Calogero e i suoi lettori, con l’augurio di riaprire così uno spazio di ricezione critica a un’esperienza poetica tra le più audaci e affascinanti del Novecento italiano, che stenta ancora ad affermarsi all’interno di un canone poetico costretto tra le due dominanti lirico-ermetica e prosastico-comunicativa. L’acquisizione nel 2009 del Fondo Calogero presso l’Università della Calabria, che ha reso accessibili a tutti gli studiosi i manoscritti del poeta, ha costituito la condizione essenziale per approntare un testo filologicamente accurato, così come già accaduto per la riedizione di Parole del tempo, curata da Mario Sechi per Donzelli nel 20105.

Avaro nel tuo pensiero è esemplare della fase più matura e propria della poesia calogeriana: scritto negli anni di più intensa produzione poetica, in cui Calogero si allontana da certe movenze stilistiche tardoermetiche che caratterizzavano la poesia degli anni trenta per approdare a un sistema del tutto personale e irriducibile a «scuole» o «gruppi» letterari, la raccolta costituisce un tassello essenziale di questa vicenda poetica. Gli anni cinquanta sono quelli in cui Calogero dimora in maniera totalizzante nel proprio universo poetico, sacrificando la propria stessa esistenza al demone della poesia, che insieme controlla e alimenta una sofferenza psichica sempre più pressante. Dopo aver esercitato per alcuni anni la sua professione di medico in Calabria, dal 1954 al 1956 Calogero è medico condotto a Campiglia d’Orcia, in provincia di Siena, dove la solitudine e lo spaesamento di una mancata integrazione rafforzano la chiusura nell’oltremondo fantastico della poesia e della nevrosi. Buona parte delle opere calogeriane si inscrive nella cornice di questo tempo di «esilio» toscano, in cui Calogero si dedica alla poesia molto più che alla sua professione di medico, come dimostra l’allontanamento dalla sua sede lavorativa, all’inizio del 1956, perché «la popolazione non gli ha dimostrato fiducia tanto che nella quasi totalità si astiene dal ricorrere alle sue prestazioni»6. La pubblicazione di Ma questo…, nel 1955, gli è intanto valsa l’attenzione di Leonardo Sinisgalli che, colpito dai «nessi incredibili» di questo «congegno espressivo un po’ dissueto», di questo «flusso inesauribile di parole», scriverà la Prefazione alla successiva raccolta calogeriana, Come in dittici, nel 1956, paragonando questi versi al linguaggio della pittura informale e coniando la fortunata formula di poesia come «arabesco»7. Alcune lettere del ricchissimo epistolario calogeriano, anch’esso in massima parte inedito e certamente meritevole di attenzione, testimoniano come il 1955 e il 1956 siano davvero anni cruciali di scrittura, di pubblicazioni destinate a una scarsissima fortuna, di contatti tentati e spesso falliti con editori e critici, ma anche di profonda inquietudine e disadattamento8.

In questa temperie di creatività febbrile si inserisce la stesura di Avaro nel tuo pensiero, 133 poesie composte tra il 16 e il 27 ottobre 1955, ovvero un mese dopo l’uscita di Ma questo… e pochi mesi prima dell’uscita di Parole del tempo e della composizione di Come in dittici. Sottolineo volutamente l’inusitata concentrazione di scrittura di questo periodo perché è proprio a partire dalla stesura di Avaro – non a caso scritto in uno spazio di undici giorni – che la poesia diventa per Calogero un abito mentale ossessivo, una pratica che accompagna e scompagina una quotidianità stravolta, assumendo una valenza ritualizzata e una modalità di attuazione diaristica che è stata efficacemente definita da «affrescatore»9. Questa sovrapposizione tra vita e poesia, se da un punto di vista biografico rivela tratti di compulsità nevrotica, da un punto di vista espressivo definisce un preciso sistema compositivo fondato sull’iterazione di topoi e motivi ritornanti, sulla loro organizzazione modulare infinitamente scomponibile e ricomponibile, sulla continuità inconclusa che lega i singoli testi e le stesse raccolte in una caratteristica indistinguibilità. La poesia si fa discorso infinito, che tenta attraverso incessanti variazioni e approssimazioni l’utopia di una parola definitiva, sempre sfocata rispetto a quella che Calogero percepisce come la verità oscura e inaccessibile della vita10.

Se è vero che la poesia calogeriana è oggetto tanto affascinante quanto criticamente arduo, è però anche vero che le lacune interpretative su questo universo poetico sono da addebitarsi anche alla parzialità della nostra conoscenza dell’opera. La pubblicazione di Avaro nel tuo pensiero è perciò una tessera estremamente significativa, non soltanto perché permette ai lettori di conoscere il Calogero della maturità, ma anche perché potrà consentire di rivedere alcuni pregiudizi della critica, ad esempio quello di una poesia sempre uguale a se stessa e priva di uno sviluppo diacronico. Il testimone unico di Avaro, conservato presso l’Archilet e modulato in una continuità di testi senza eccessivi ripensamenti, correzioni, varianti, ci permette di avvalorare l’ipotesi di una precisa collocazione cronologica e semantica di quest’opera in posizione di cerniera tra Ma questo… e Come in dittici, le due raccolte di cui riprende e varia i topoi più ricorrenti e le mitologie di fondo. Sebbene all’interno di un sistema espressivo che privilegia la continuità piuttosto che le fratture, possiamo affermare che Avaro costituisce uno scarto rispetto a quella fiducia espansiva nella poesia che caratterizza Ma questo…, e che si realizza come incondizionato incanto del linguaggio e dell’universo fantasmatico da essa postulato.

A partire da Avaro, l’assolutezza di questa «città fantastica»11 comincia a essere incrinata da dubbi, rinunce e reticenze. Ne è prova lo specifico trattamento del più tipico agente espressivo calogeriano, quel «tu» fantasmatico a cui sempre questa poesia si rivolge, che rappresenta al contempo una sublimata presenza amorosa e la poesia stessa come oltremondo onirico, quell’«altrove» che l’io calogeriano sceglie come propria dimora, dotato di una propria paradossale coerenza semantica12. Se in Ma questo… la personificazione femminile del «tu» è ancora segnata da derive estatiche e da compiaciute fantasmagorie oniriche, a partire da Avaro si inscena un conflitto tra questa figura fantasmatica e un io che tenta di differenziarsene. Bisogna infatti tener presente che nella poesia calogeriana l’io poetico tende sempre a con-fondersi con l’altro, in una fluttuazione cognitiva del soggetto, che è insieme un fenomeno retorico e psichico. Proprio con Avaro nel tuo pensiero l’identità indecisa del soggetto davanti alla forza attrattiva del sogno e dell’altrove inizia a precisarsi e a delimitarsi, per mezzo di quel conflitto col «tu» e con la sua dolorosa evanescenza che caratterizza il poemetto e la sua specifica dimensione agonistica. In tal modo si avvia quel processo di autoindividuazione che costituisce a mio avviso una delle più intriganti tracce di lettura della raccolta del ’55. Attraverso le schermaglie pronominali, le resistenze e le desistenze, Avaro nel tuo pensiero mette in discussione uno dei topoi più connotativi del sistema semantico calogeriano, quello dello specchio e della specularità universale, tanto che in Come in dittici lo specchio subirà una torsione nella figura che preserva e differenzia le due identità dell’io e del tu, il «dittico» appunto13.

In Avaro il «tu» a cui il poeta si rivolge comincia a essere circonfuso da dubbi, distanze, distinguo: «Volli difendermi dal tuo cuore inerte»; «Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro»; «Come acqua cedua/ mi riattempo nel tuo bosco,/ ma non so nulla più di te»; «né voglio/ sapere mai di più né fidarmi/ a distanza più di te»; «Io sapevo esserti diverso e ben altro»14. Il «non più», sintagma della desistenza e della perdita, percorre il testo come un refrain musicale, un basso che segna la fine di una confortante illusione simbiotica e panteistica, in cui l’io si percepiva identico alla propria stessa poesia e al fantasma femminile che la sostanzia. Il canovaccio insistito del testo prevede ad esempio il tentativo di differenziarsi dalla tipica incorporeità del «tu» («rapida sei tu su le tue membra/ di ombra ed ossa», 122; «Una pigra/ grigia favola era appena il tuo volto», 163), e di accedere così a una nuova percezione di sé:

Io stesso corroso

dalla vetta alta dei monti non so riconoscere

chi non ha più corpo. (24)

Dentro una gabbia sul selciato parlo

e numero le ore del mio giorno.

Ripopolo il tempo mio con ombre

stanche e parlo da solo o mi corrompo

in un gruppo fragile e dissimulo. (86)

All’interno di una poesia in cui tutto è fondato sulla somiglianza universale tra la parte e il tutto e sulla parificazione di ogni elemento, in cui vita e morte, vero e finto, realtà e sogno, condividono un medesimo spazio di esitazione e di compresenza, il dato più significativo di questa raccolta sembra essere l’incessante tentativo di auto-riconoscimento dell’io come altro, separato dal fluttuante universo onirico della propria stessa poesia. Fin dal titolo che allude ai due attanti di un dialogo impossibile – l’io avaro nel tuo pensiero –, tutto il testo è intessuto in un fitto reticolo pronominale che demarca i due personaggi, ma che nello stesso tempo li sovrappone e li confonde. L’io e il tu si scambiano parti e ruoli, l’io si nomina in prima, in seconda o in terza persona, si confonde e si differenzia, si perde nel proprio stesso balbettio «di uno che si salva/ o che ti chiama» (154) e poi improvvisamente riemerge in lampanti autoritratti:

Per quanto egli amò con gloria

era una pallida titubanza

che si narrò ai margini delle rocce. (173)

La dolorosa rinuncia al sogno panteistico, l’incessante precarietà, lo stato di pericolo, la continua minaccia di smarrimento, segnano i connotati di un io che percepisce e descrive la propria labilità, tanto da definirsi insistentemente nel testo con le sigle di «povero» e di «avaro». Si tratta di un io le cui radici sono minacciate da un’instabilità psichica che la poesia rielabora e nomina, come in un meticoloso diario della percezione, sublimando lo strazio in rapimento:

Il tuo nome

è una pioggia aerea tinnente che scava

le radici cui mi appoggio. (115)

[…]

ecco perché rimiro, povero,

anch’io così poco con gloria

alberi stanchi e i segni

dell’altrui dolore. (7)

Nella Nota del 1956 a Come in dittici, Sinisgalli individuava nella poesia di Calogero una duplicità rinvenibile anche in Avaro nel tuo pensiero: «Egli descrive un sogno così minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un’altra vita, più resistente alla morte»15. Non si tratta solo di quel tipico geometrismo astratto, che anche qui, come in tutta l’opera calogeriana, associa precisione e impalpabilità della forma («Sopra mormorii quadrati,/ di onda in onda, sopra una vetta antica/ perduta, di gennaio, i tuoi sogni/ sono oggi esigui», 137; «Accade/ un ghirigoro spesso/ di cui non so l’immagine e la fine/ che rade l’aria dentro una luce smossa/ e cade dentro», 5). In Avaro nel tuo pensiero, attraverso l’alternarsi incessante di rispecchiamento e conflittualità tra io e tu, questa doppia tensione calogeriana tra arabesco e forma si traduce in una complessiva compresenza tra smarrimento e misura, ambiguamento e individuazione, fluttuazione e perimetrazione del caos16.

Questa doppia tensione testuale riguarda la stessa declinazione espressiva della raccolta, d’altronde tipica del linguaggio poetico calogeriano: da una parte è facile riconoscere una dizione continuamente decentrata e ipnotica, che tenta vie di significazione altre da quella logico-argomentativa, che insiste sull’analogismo fonico e che adotta a proprio modello la sintassi sincronica dell’inconscio e del sogno. A tale valenza iterativa del testo si possono far risalire alcuni caratteri propri della raccolta che funzionano talvolta come inceppamenti espressivi: ad esempio quel formulario standardizzato (l’«altrui dolore», la «mano liquefatta», la «sagoma alata») che, come notava Amelia Rosselli, è qui ancora più massiccio ed enigmatico che non altrove, o l’uso insistito del verbo essere, specie nella sua declinazione dell’imperfetto narrativo «era», che defocalizza l’espressione in un’infinita parafrasi e in una fitta catena accumulativa renitente alla tessitura sintattica («Pervinche trovate a caso/ erano in lievi selve. Forse non più se ombre/ erano esatte», 13).

E tuttavia, proprio in Avaro nel tuo pensiero si coglie più che altrove la tensione dissonante del conflitto con il proprio stesso linguaggio defocalizzato e irresoluto. In forza della necessità di nominare un io segnato dalla «povertà», si registrano improvvisi scarti da quelle molteplici variazioni che intessono il discorso calogeriano come un infinito balbettio, delineando passaggi di assoluta limpidezza in cui emerge non solo un io cosciente della propria alterità, ma anche lo stesso senso del discorso:

Non mi ricordo più di te preso dall’interno

e un nome non riodo più

che ripido discese a chi fu sì povero

e la sua povertà era tenera

e languente. (194)

Vedi,

ti attendono ancora gli intensi sensi

dolci aliti dei vivi. (106)

Avaro nel tuo pensiero,

la stessa sostanza arida t’invischia

solo per tuo diletto. (119)

Povero, vivo, avaro: in questa catena aggettivale – di cui non sfuggirà la non casuale concatenazione fonica – delle sigle più ricorrenti del testo, si condensa il ritratto dell’io che emerge dalla raccolta, connotato dalla cifra della solitudine, dell’abbandono, dell’intransitività. «Avaro» e «povero» sono infatti non solo cifre dell’impotenza, ma anche categorie semanticamente speculari, che rimandano alla mancata relazione di scambio tra dare e avere (avaro è chi non dà, povero chi non riceve), e dunque all’ascolto negato, al destino di soliloquio che il poeta delinea o prefigura nel suo arabesco verbale: «Presso l’aria grigia accanto ad un fanale/ un povero bussò più volte alla tua porta» (100). Attraverso la trama pronominale e la dolente relazione con l’altro negato, si coglie in Avaro una nuova attenzione alla sostanza emotiva del soggetto, che si realizza nel testo come interrogazione incessante sulla soglia che separa, ma che più spesso unisce, vita e morte, e sul proprio stesso sempre dubitato essere «vivo» («Un sopore/ vivo si posava vivo sui denti contorti», 129). Lo spazio sincronico e panteistico della poesia si offre a Calogero come luogo in cui vita e morte condividono un medesimo orizzonte e si sostanziano in un’unica percezione di sé, scisso, duplice, perennemente ipotetico e dislocato. Perciò Avaro nel tuo pensiero è una tappa essenziale di questo «lugubre assolo»17 in cui l’io indagandosi dubita di sé e dell’altro e misura la propria irresoluta presenza tra vita e morte:

Non mi riconosco

e rimiro di notte a tarda ora

dentro di esso il mio viso stesso

stremato e povero come una fronda

dentro una favola. (71)

1 Fascicolo conservato presso il Fondo Calogero dell’Archivio autori contemporanei (Archilet) dell’Università della Calabria, catalogato con la segnatura AC/001.007. L’annotazione è datata 7 febbraio 1959.

2 La citazione è tratta dai quaderni inediti del 1936, riportata in A. Piromalli, I primordi della poesia di Lorenzo Calogero, in Lorenzo Calogero poeta, a cura di A. Piromalli, T. Scappaticci, C. Chiodo e P. Martino, Atti della giornata di studi, Melicuccà, 13 aprile 2002, Qualecultura, Vibo Valentia 2004, p. 33.

3 Cfr. L. Calogero, Opere poetiche, 2 voll., a cura di R. Lerici e G. Tedeschi, Prefazione di G. Tedeschi, Lerici, Milano 1962-66. Per un confronto tra questa edizione e i testimoni conservati presso l’Archilet, rimando a C. Verbaro, Dal diario al frammento. I manoscritti di Villa Nuccia, in I margini del sogno. La poesia di Lorenzo Calogero, Ets, Pisa 2011, pp. 147-65.

4 Per un’ampia ricostruzione del rapporto Rosselli-Calogero, si veda Ead., «Al bivio di tutte le sognanze»: Amelia Rosselli e Lorenzo Calogero, in I margini del sogno cit., pp. 103-24. Si veda inoltre L. Calogero, Da «Avaro nel tuo pensiero», in «Tabula», 1980, 3-4, pp. 21-37, e A. Rosselli, Un’opera inedita di Calogero e la sua corrispondenza letteraria, 1983, ora in Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici, a cura di F. Caputo, Interlinea, Novara 2004, pp. 109-23.

5 L. Calogero, Parole del tempo, a cura di M. Sechi, Introduzione di V. Teti, Donzelli, Roma 2010.

6 Si cita dalla delibera del Comune di Campiglia d’Orcia, riportata in G. Tedeschi, Lorenzo Calogero, Parallelo 38, Reggio Calabria 1996, p. 68.

7 Le citazioni di Sinisgalli sono tratte da diversi interventi: «Corriere d’informazione», 24 febbraio 1956; «Fiera letteraria», 3 marzo 1957; Nota a L. Calogero, Come in dittici, Maia, Siena 1956, p. 7.

8 «Ti avevo inviato due lettere […]. Con esse credevo di averti detto più o meno il mio pensiero […], che mi sento male, che non guadagno un quattrino, che non trovo alcuna possibilità migliore di quella che avrei trovato costà per pubblicare i miei versi, mi domando perché insisto a rimanere e non rinunzio definitivamente al posto […]. Se non fosse la pigrizia che mi impedisce o almeno mi ostacola a far le valigie, sarei a quest’ora sul treno, mentre è probabile che dovrò essere preso, non dico di forza, ma dalla energia altrui per venire se verrò. E poi venendo costà che cosa troverei?» (L. Calogero, Lettera alla madre del 19 novembre 1955, riportata in Tedeschi, Lorenzo Calogero cit., pp. 66-7). Per una prima ricostruzione di alcuni rapporti epistolari calogeriani, si veda C. Reale, Lorenzo Calogero e i suoi editori nelle carte dell’Archivio, in L’ombra assidua della poesia. Lorenzo Calogero 1910-2010, a cura di V. Teti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 123-40.

9 D. Piccini, Lorenzo Calogero. Una celeste titubanza, in «Poesia», XXI, giugno 2008, 228, p. 4. Sulla modalità ritualistica della scrittura, si veda F. Librandi, «Non sono riuscito a vivere». La dimensione rituale nella scrittura di Lorenzo Calogero, in L’ombra assidua della poesia cit., pp. 179-87.

10 Tra le sedi in cui più lucidamente Calogero esplicita la propria poetica, si ricorda la Premessa a Parole del tempo, scritta nel 1956: «so che esiste un metodo ed un sistema espressivo non conosciuto affatto prima che le cose si esprimano e che, realizzandosi, rappresenta il modo attraverso cui si giunge ad una, sia pur, limitata verità […]; esistendo una bella differenza tra vita e verità non del tutto incolmabile […] uguale approssimazione, almeno, esiste fra espressività di qualsiasi genere e la verità più caratteristica dell’uomo e della vita. [Il poeta] tenta di dare una ragione alla vita tramite la verità e ciò che la precede, cioè l’espressività» (L. Calogero, Premessa a Parole del tempo cit., 1956, pp. 5-8).

11 Si tratta del celebre sintagma che designa per Calogero il proprio universo poetico: «il titolo che avevo pensato per un mio libro di poesie e che, dentro i miei limiti e le mie capacità poetiche, avrebbe dovuto essere quello “Città fantastica” intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa» (L. Calogero, lettera a Vittorio Sereni del 25 ottobre 1960, riportata in «La Provincia di Catanzaro», Speciale Calogero, La breve vita e la morte di Lorenzo Calogero, II, luglio-agosto 1983, 4, p. 99).

12 Per un’individuazione dei topoi che caratterizzano la «città fantastica» – l’oscurità, l’altitudine, la leggerezza, il movimento, il metamorfismo – mi permetto di rinviare alla mia prima monografia calogeriana, C. Verbaro, Le sillabe arcane. Studio sulla poesia di Lorenzo Calogero, Vallecchi, Firenze 1988.

13 Per un’analisi di questo processo di auto-individuazione nella poesia di Calogero, cfr. Ead., Essere «io». Il soggetto poetico da «Ma questo» a «Quadeni di Villa Nuccia», in I margini del sogno cit., pp. 127-45.

14 Le citazioni sono tutte tratte dalla presente edizione di Avaro nel tuo pensiero, rispettivamente pp. 38, 101, 46, 183, 165. Nelle prossime citazioni dalla raccolta si indicherà direttamente la pagina nel testo.

15 Sinisgalli, Nota cit., p. 7.

16 Questo topos della misurabilità metafisica secondo Sechi associa Calogero ad Amelia Rosselli, in quanto «la materia fluida e incoerente della percezione e delle immagini […] appare disciplinata attraverso faticose controspinte razionalizzanti» (M. Sechi, Una poesia al limite. Fattori costruttivi del discorso calogeriano, in L’ombra assidua della poesia cit., p. 217).

17 L. Calogero, Quaderni di Villa Nuccia, in Opere poetiche cit., II, p. 378.


Nota al testo

Il testo manoscritto, sul quale si basa questa prima edizione integrale della raccolta, occupa due interi quaderni (81002 Avaro nel tuo pensiero/A e 81003 Avaro nel tuo pensiero/B) del fondo archivistico Lorenzo Calogero, conservato all’Università della Calabria. I due quaderni presentano quella che appare come un’opera organica, predisposta dall’autore per la pubblicazione, con frontespizio (contenente nome dell’autore, titolo e datazione: Campiglia d’Orcia, 16 ottobre 1955 - 27 ottobre 1955), e indice in coda.

Nell’Avvertenza al secondo volume delle Opere poetiche edite da Lerici, illustrando il piano editoriale complessivo, poi rimasto incompiuto, il curatore fa riferimento a un dattiloscritto di Avaro nel tuo pensiero (A), di cui non è stato possibile trovare traccia. Non è escluso, ma neanche provato, che tale dattiloscritto sia venuto in possesso di Amelia Rosselli nei primi anni ottanta, all’epoca del successivo progetto di edizione, anch’esso fallito. Delle bozze di stampa della raccolta, con correzioni a mano, realizzate evidentemente in vista dell’edizione a cura di Amelia, risultano copie in possesso di privati: una di esse è nelle mani di Caterina Verbaro, ed è stata doverosamente considerata in vista della presente pubblicazione (B). Non è stato possibile tuttavia, alla luce delle risultanze documentali e delle testimonianze, capire se questo testo giunto allo stato di bozze sia stato riprodotto sulla base del dattiloscritto (A), oppure se esso derivi da un altro dattiloscritto, autonomamente ricavato, in anni più tardi, dal manoscritto autografo. In ogni caso, a questo secondo testimone non è possibile attribuire un significato dal punto di vista dell’accertamento del testo, ma solamente dal punto di vista della storia della ricezione e delle edizioni calogeriane. Si può e si deve peraltro segnalare in questa sede che, nel complesso, la versione che esso esibisce risulta non priva di mende e di fraintendimenti: il più macroscopico consiste nella «invenzione» di un componimento in più, derivato dall’erronea divisione in due del componimento Sebbene le clemenze, a partire dal verso «Un capo dondola» (che è semplicemente un «a capo» rientrato).

Una scelta antologica di 13 componimenti della raccolta fu pubblicata a cura della stessa Rosselli sulla rivista «Tabula» (1980, 3-4), con una breve nota informativa firmata «Am. R.». Di tali componimenti si fornisce la semplice lista, senza ulteriori considerazioni riguardanti l’accertamento dei testi: Decaduto ogni giorno; Sento capricciosi eventi; Tu potevi non chiamarmi; È permanentemente vero; Cadono vani sogni; Sono arsi i movimenti; Quali beati lampi; Forse perché partecipi di un modo esatto; Roso il sangue, una verbena; A tardo strazio la notte era; Sapevi addormentarti; Mi conviene sotto archi; Per quanto egli amò con gloria.

Nella trascrizione dei componimenti che ora offriamo al lettore si sono rispettate sempre le forme usate dall’autore, anche quando ortograficamente anomale, salvo per quanto riguarda la punteggiatura mancante o errata (il punto fermo viene perciò aggiunto, o sostituito a una virgola, entrambe le volte in fin di frase) e la normalizzazione dei «né» e «sé», segnati con accenti gravi sul manoscritto, nonché di «se stesso» (talora nel manoscritto con accento: «sé stesso») e di «qual è» (talvolta «qual’è»): in questi ultimi due casi l’oscillazione dell’uso consente di ipotizzare semplici lapsus calami. Di lapsus meccanicamente ripetuto trattasi evidentemente anche nel caso della forma «esterreffatta», che compare nel titolo e nel primo verso del componimento L’aria grigia esterreffatta, e che si è pertanto emendata.

Nei quaderni i componimenti risultano vergati nella stesura di base in inchiostro stilografico blu, mentre le correzioni sono talvolta a inchiostro, ma per la maggior parte a biro blu. Delle varianti si dà conto più avanti in questa nota, solamente per i casi di varianti multiple e indecise, oppure quando le correzioni abbiano creato, per imprecisione di tratto, lacune o dubbi.

I titoli dei componimenti, che corrispondono sempre, in tutto o in parte, al primo verso, sono stati uniformati con l’eliminazione delle parentesi in cui talora sono compresi. Sono stati eliminati altresì gli «ecc. ecc.», che in qualche caso stanno semplicemente a segnalare un riporto parziale del primo verso nel titolo. L’indice autografo posto alla fine del secondo quaderno (che in questa edizione non si riproduce) registra talvolta in modo leggermente difforme i titoli, ma di tale difformità non si è tenuto conto, trattandosi di scostamenti meccanici evidentemente prodotti dalla ricopiatura, che vanno considerati anche in questo caso come frutto di semplici lapsus calami.

Per non appesantire il testo della raccolta con apparati, procediamo senz’altro a registrare in questa nota la rassegna dei casi dubbi, che hanno richiesto una valutazione critica da parte dei curatori, dando conto brevemente delle ragioni in favore della lezione scelta:

Tu potevi non chiamarmi: al v. 9 è scritto «sei» invece di «sai», a causa di un mancato adattamento del verbo alla forma definitiva del testo (dalla prima versione, «che non sei più per riconoscere», alla seconda e definitiva, «cui non sei più pensare»).

Forse l’annuncio vano delle parole: al penultimo verso, per la parola conclusiva di incerta decifrazione («incontro» o «incanto»), si è preferita la lezione «incanto», anche per congruenza con il verso finale («di cui da anni siamo privi», che appare aggiunto nel manoscritto, in uno spazio ricavato).

Se qualcosa timido risuona: al v. 32 si corregge «sogno» al posto di «sono», per congruenza semantica al contesto, avvalorata dall’attrazione di «sognato», al v. 30.

Se mutate ombre: al v. 6 si mantiene la forma «grige», che attesta usi ortografici correnti anche in autori canonici del Novecento (si veda Saba: «spece» per «specie»).

I traguardi frugano le ore: al v. 1 si opta per la forma «fugano», perché la «r» è cassata, e nonostante che nel titolo risulti chiaramente la forma «frugano», anche perché l’uso della variazione, frequentissimo nel corpo dei componimenti, risulta attestato nei titoli anche in altri casi.

Il sole delle case ha invaso le cime: al terzultimo verso in apertura l’autografo presenta una «o» che si è deciso di eliminare perché il carattere è totalmente riempito, e dunque verosimilmente cancellato.

Tu pure sapevi nei segni: al v. 7 si mantiene la forma «dissidii», evidentemente preferita dall’autore.

Odo qualcosa con ordine: al v. 31 del manoscritto («sguardi vidi, vvidi, discendere») la terza parola risulta vergata chiaramente nella forma «vvidi»: si preferisce scioglierla in «vividi» anziché contrarla in «vidi», anche perché in Calogero la ripetizione immediatamente consecutiva di una stessa parola è assai rara, mentre la variazione fonica e semantica è frequente.

Quali beati lampi: all’ultimo verso si è deciso di cancellare la seconda parola «in», che è del tutto incongrua, e che è assai verosimilmente un residuo di una versione precedente, accennata e subito scartata, di cui vi è traccia in una piccola cancellatura (che segue immediatamente la parola «in»).

Intima una vita liquida: al v. 7, dopo «leggero» si recupera «il» dalla variante sottostante cassata, poiché la cancellatura dell’articolo appare erronea e involontaria.

Ancora sogni. L’anima vagante: al v. 16, sopra la parola «sul» è scritto «dal», e la variante risulta sospesa (si preferisce pertanto mantenere «sul»).

Io sapevo esserti diverso: al quintultimo verso si corregge «questa» in luogo di «questua», che è un evidentissimo lapsus.

Un problema a parte, e di grande importanza, è quello della datazione. Non vi è alcun indizio che tale datazione così come riportata sul frontespizio di entrambi i quaderni (16 ottobre 1955 - 27 ottobre 1955) possa riferirsi all’epoca di una copiatura in bella, e del resto non è stato possibile rintracciare, nei quaderni dei mesi e degli anni precedenti, alcun elemento testuale che possa far pensare a una gestazione progressiva della raccolta. Di conseguenza, non mettiamo in discussione la circostanza dichiarata di una stesura concentratissima, un vero e proprio forcing di ideazione e di scrittura, che viene ad avvalorare l’idea di un metodo di lavoro assorbente, al punto di togliere tempo e vita alla vita vera dell’autore. Questo aspetto del caso Calogero, il segreto del suo febbrile «come lavoro», rappresenta tuttora un motivo di stupore, e di dovuto, specialissimo rispetto.

La trascrizione diretta dei quaderni è stata effettuata da Sonia Rovito e Graziana Francone. Alla revisione finale del testo ha collaborato Annabella Petronella. Desidero però dichiarare che questo libro nasce da una collaborazione di squadra, e da una condivisione piena delle responsabilità scientifiche da parte dei due curatori.



Bari, 10 giugno 2014

M. S.


Ringraziamenti

Questo volume rappresenta il secondo momento di un piano editoriale, concepito anni fa dal Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria, sotto la direzione del professor Vito Teti, con il sostegno della Regione Calabria, e concretizzatosi finora nella riedizione, per lo stesso editore Donzelli, delle raccolte poetiche giovanili di Lorenzo Calogero (Parole del tempo, 2010). Il piano originario puntava a rimettere in circolazione, in forma riveduta e corretta sugli autografi, le opere edite e non più disponibili del poeta, e a far emergere dal silenzio altre porzioni rilevanti del suo ricchissimo archivio. Immaginabili e meno immaginabili difficoltà di reperimento di risorse hanno complicato e quasi bloccato questo percorso. Per la generosità e la sensibilità della UBI Banca Carime, e del suo presidente professor avvocato Andrea Pisani Massamormile, e per la collaborazione dell’Università della Calabria e dell’Università Aldo Moro di Bari, siamo infine in condizione di far ripartire il progetto, con l’auspicio che possa più compiutamente realizzarsi.

Sono inoltre dovuti, ma anche calorosamente sentiti, i ringraziamenti agli eredi del poeta, Lucia, Luisa, Mario, Michele e Pietro Calogero, al personale dell’Archivio attualmente custodito dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria, e a tutti quanti hanno condiviso nelle motivazioni e nel concreto lavoro questa esperienza.


So che non occorre tempo

So che non occorre tempo e questo è molto.

La fine è assidua.

La verità tua era appena un disegno a volte.

Lenta

sapeva essa questo solo o quello

al lieve contatto, come quando s’alzano

dal mare le montagne e da lievi carezze i gridi,

le brezze fini dell’aria su le curve

de le lunghe linee su le dita

come le altre bellezze non più tue declinano.

Potevi interrogarti ma una parte

sola era vera del tuo cuore.

Fortemente si spezzano

o si sognano leggeri dormenti i vizi.

Su deserti venti oggi alberi si piegano.

Appena essi si alzino soli

ebbero questo o quello solo

che minutamente dentro una tua parola,

nel vespero o nella sera dei nitidi tuoi occhi

umida si vede.

Ragazzi all’incirca sono già ora.

Vedono essi lentamente.

Si dispiegano le vele.

Ma perché non sempre la fede aerea tramonta

e sopra i sortilegi ondeggiano le acque

silentemente in esse

camminino le cose

muta ora, da onda ad onda, nuota

quando nuda in essa la verità lieve

nascente la bellezza umida

si pieghi.


A tardo strazio la notte era

A tardo strazio la notte era

sopra tutte le cose che sembrarono strane

e non negava una sembianza tacita

quella che era vera solo nelle immagini

delle strade e si beve il senso.

Fu di volta

in volta sopra le arse zolle

una città gelida o sognante.

Pure, purché miriadi di scintille

oggi si piegano e non più lontano è il murmure

del mare denso che ebbe una volta una città quadrata,

sopra uno stelo a caso oggi ti affacci

sulle abitudini della tua vita

e non erano più esse quelle che tu chiedi

nel cerchio di un desiderio immenso.

Si sprigionano le onde che furono

una volta sola le tue stelle

e non fu la tua più che una squallida innocenza.

Un silenzio solo è ora

completamente amico.


Sopra mormorii quadrati

Sopra mormorii quadrati,

di onda in onda, sopra una vetta antica

perduta, di gennaio, i tuoi sogni

sono oggi esigui.

Nubi dense appaiono

e non fu più che sogno,

una vanità che lievemente oscilla

dentro le tue mani modiche.

Un sapore

esse avevano di neve

che teneramente, internamente brilla.


Lontano sui misteri guardi

Lontano sui misteri guardi, le onde

conosci, quel che era a schiera non veduto

nel nostro sangue, dai sogni caduti

solo per terra.

Oggi si ripaga una parte

della natura del nostro sangue modico.

Quel che era marcisce come la febbre o già cera.

Ma non ti contraddire! Silentemente

squallida era una verità sorgente.

Un triste segno levigò sopra i marmi

un vezzo in un oceano ch’era solo di uccelli.

Sopra una marina chiusa con cura

una curva era un arco dentro un’altra

più attigua.

Se un segno si rompe sempre

ed ora era una linea, ora un nonnulla

un caro precipitato coro di un pegno

entro una schiera tua contigua, non ho più venduto

nulla di te, non ho subito più di te

oltre che un disegno di un nostro sogno

che tacito inclina.

Chi vi prese parte

era sopra il pane del nostro grano

che rigermoglia sempre sopra la terra tua già mesta.

Ritornerà palese l’altrui dolore

più nella pena che nel disamore.

Un tacito accordo comunicò da diverse

parti alle trecce delle rocce,

e perché mattina non era più quella, che è inferma

da volubili segni, scavò la sete dell’uragano

quella che era di te più intensa.

Se ti tocco

era appena nato un moto del nostro sangue

sopra una pallida tua mano.

Non visibilmente,

non diversamente si contenne

ciò che traccio per puro caso nel niveo

tuo rossore, nella rosea diversa nudità

delle penne tue che amo.


I sogni non sono proclivi

I sogni non sono proclivi.

Non so più che amo. Quel che sono

puramente s’ignora. Una mattina ferma,

ora questo ora quello, un vaporoso senso

di un richiamo della sera,

una pura pena ti dettero.

Sono fuorviati i sensi dalla mano.

Non so più che aereo suono

era nella lievità delle tue dita,

quale stella era più prossima e attigua

ad amarti, quando trascorse querulo

e gelido nel tuo nome il compleanno.

Pungente era pure una morte schiva.

Non questa era la tua fine. Presagita

vicenda era da sempre che ti attende.


Rigidamente inclina

Rigidamente inclina

beltà splendente a le tue dita.

Non è più cortina funebre

dall’alba al tuo tramonto

celeste che non amo.

Da un pezzo è già finita.

Da grigi vetri

qualcosa cadrà nelle mani ondose.

Odi: pesante è l’alito di un ballo.

L’anima era tersa, tesa al suo domani:

forse era dentro un piccolo cristallo.

E perché molte cose avvennero

non chiedo ormai di più: o essere la sabbia immutata

o un bacio di neve ne la nebbia

o un passo tuo innocente.

Nulla è già mutato

sul mio passo, nella mia faccia

di soldato, nel mio vestito lacero,

nella tua festa piccola di un ballo.

O nulla mai ti ho dato.

Una pianta era nella selva già distesa

quanto quest’ansia era umile

ed umida di pioggia questa sera.

Perché, vedi, di te, mai di nulla ho dubitato.


La selva conosce corrosa se stessa

La selva conosce corrosa se stessa

a metà. Forse un piccolo

patetico struzzo, grigia l’aria,

già inclina e non sono state mai le mie parole

un mezzo giusto per indurre

a difendere quanto l’ombra rovina.

Scocca l’ora nella penombra solida.

Mai furono povere inerti cose

e parvero cadere prima di sera

frantumandosi dentro una stella.

Era un tuo pensiero

unico vergine un punto assiduo come le vele

di là da un anno del tuo ritorno

da un giusto senso

su un tuo sentiero.

Furono vane queste piccole vicende

e se io ti amo non è più che un canto

eguale.

Un suono è dimesso

ora sul verde, un più o un meno

che ora va ed ora viene, una croce

o una stella.

Era doveroso un suono

argenteo, timido.

Un ricordo si sfiocca

variegato nel nulla.

Cade a metà aereo sorgente.

Sono vivido di sorprenderti.

Cade fitta l’ora giusta,

e non dissuadendosi dall’ora

grave del giorno più s’avvera,

dentro una stella, un pallido

ritorno di se stessi dentro una vela.


A mutati sensi i venti gridano

A mutati sensi i venti gridano.

Sono un profilo pallido, un senso

soave disadorno di parole, un pensiero preciso

dentro un punto fisso nel suo vuoto.

Se ritornano incendi

non ti ho detto nulla.

Magra

amalgama rossastra era un tuo ritorno

nell’atto intenso di un tuo denso bacio

nel tuo stesso moto.


La pioggia sorridente

La pioggia sorridente

e il bosco avaro, ma non come ti dissero

immutabile più libero e diverso

da quello che aveva impresso il suo stesso corso.

Le nuvole folli erano mobili nel cielo.

Un coro erano a volte nel buio

del tuo stesso vuoto.

Sebbene riconosco me stesso

non so con quali occhi ora mi guardi,

(ed era lento un suo sentire) non so con quali echi

entro quali volubili onde rare ti colsi.

Non so più che dissapore

o disamore che fu nell’anima vaporosa

mutata dal soffio del suo vento

in un soffio così simile all’ala

della materia, nella grigia capricciosa

gioia dell’alba o della nebbia sua rossastra.

Quella ch’era un’aurora

era balzata limpida e sola

all’altezza splendente del suo cielo.

Se questa era una gioia ora vedi le strade

danzare a destra, o questo

era un capriccio lento del tuo cuore.


Naufraghe e lente le ore discorrono

Naufraghe e lente le ore discorrono

fra loro e chi una beltà supina

dentro un fuggevole volto ebbe

nel suo cuore, alle stelle rivolto, nel riposo

suo s’inganna, e in chi non ebbe

più volontà d’amarsi sempre ritorna

dentro risoluta solida un’impronta.

Una scialba isola era così sciupata

e rara, così composta e fuggevole

una macchia già nell’ombra.

Ritorna l’orma che non veduta

più non si racconta. Ma posso attenderti

già in altro luogo. Altro non sai mai

di me se tiepida una voce era o tipica

era una sua struttura

o del bosco errante era già una tua favola.


Avaro nel tuo pensiero

(Poesie)

Campiglia d’Orcia

(16 ottobre 1955 - 27 ottobre 1955)


Alla fine i tuoi pensieri vagarono soli

Alla fine i tuoi pensieri vagarono

soli. Non è pace più l’anima residua

perché in essa non si ripercuote nulla

più della sua natura.

Sulla terra

tesserono invano nei suoi lineamenti

i sensi tuoi remota e mesta

ai passanti una luna.

Con calma calò rosea una sera.

Intorno era un intenso rossore od un’ala.

Nella mano con pena un ritmo era sicuro.

Degli occhi glaciali era vera una danza.

Affrettati suoni e passi com’echi erano pure.

Io ti chiedo infine quale aereo vapore

ancora non era, quale zelo era caduto per terra.

Mi dolgo e mi affretto anch’io.

Non era più pace all’interno.

I lineamenti

tuoi più non odo e l’uno dopo l’altro era vero

quel che nel buio con pace risuona

o lentamente triste s’avvera.

Sagome alate

e il dolore umano erano pure.

Sopra tutti

non valse più una sera, quella che aerea

nei tristi occhi tuoi vuoti l’ombra raccolse

con pace già caduta altrove.

Non potevano più essere i tuoi cigli asciutti.

Il sole non era più lento come già il vuoto

era così cauto nel cauto inoltrato incedere

al limite della materia.

Il limite massimo

sapeva internamente essere

quasi una ferita dentro la mole

della luce densa del sole.


Quando densa una pace era già una schiera

Quando densa una pace era già una schiera

per semplice desiderio o non era più quella

la tua voce, un vasto flutto come un lago

suo di foglie tutta ti commuove

e già ti serra.

Non valse più rosea una tua sera

in un letto suo di foglie e non valsero

più cose non nuove, ora modeste.

Si rispecchia

il frutto maturo dei tuoi giorni.

Se io ti indico un luogo non era più quello

come il lampo che si stringe

alla tenera tua gola e se, guardo al largo,

non era più nulla con cui si cinga

remota già una siepe.

Non so che dolcezza unica fu sui lunghi steli

raccolta ai tuoi passi se ora si rallenta.

Sui prati dei corpi

dei nostri morti fiorì una lunga sete

o una gioia tanto remota immota

tattile che ti sente e già li tenta.

Pinnacoli sono oscuri già con gloria

lungo i canali, nei sibili dei rettili

e, forse, inutili sono scevri i segni

dei sogni delle lunghe ore

delle selve tanto attese.

I tuoi gridi improvvisi

odi di anno in anno

e giunti come un segno su le stelle

nivei rincorrono un silenzio.

Il tuo nuovo senso erra rigido d’amore, nell’assenzio.


Perché di anno in anno

Perché di anno in anno

non più diversa era una prova,

dove germogliano inverni, silenzi

dei dì e una patria non nuova

già vedi, rincorri glauca e rotonda

quando s’affaccia o tramonta una luna.

Il marezzo non è così inverso

come il grido che ti colpì.

A rovescio

una medaglia era già dentro.

Te pure trasse

una larga mano che più non ti rapì,

e tormenta un altro dubbio quanto un ricordo

era di un mendicante, il grido soave dell’amore

che chi non è più giovane, dopo tant’anni,

sempre capir non può.

Se mi appago e mi fingo

non mio, non più s’invecchia

appoggiando un tuo gomito al mio fianco

che trasse pure e prese dal mio fango

un suo spiraglio insolito in disparte.

Un fiotto sul collo già era

o alla parete arida e non era indarno.

Cose nuove certamente già prese

mi meravigliarono, ma non rincorro

più le stelle.

Erano esse lungo un precipizio

gracile ma non più dentro il mio.

Sottile al mio orecchio

era anche un nuovo tuo sbadiglio.


Ancora sogni. L’anima vagante

Ancora sogni. L’anima tua vagante

era nel nulla tuo e tranquilla e se amo interrogarti

non era più di chi conosce

meglio di te la nostra pena. La mano

era oscura. Ma valeva adornarsi.

Fiori erano accanto con la tua stessa gioia.

Isole ferme erano pure ai tuoi ginocchi.

Trepide come fari accolsero esse

ciò che più non vale raccontare.

Raccontarmi era vivido un ricordo

tuttavia incuriosito e intrepido ero

che in vividi vivesti aliti negli occhi tu da sola.

Il fiato freddo del prato era vivo e tuo.

Silenziosa era forse la tua fine.

Ora pieghi come quando gentili pieghe

di nuvoli folli sbocciarono sul tuo volto

dal cielo a fine d’anno.

Era anche lieve forse il petto.

Non era più il tuo sonno

nel ritorno diafano percorso.

Udivi sulle labbra discontinue e tue

come un arco che era d’argento. Dissimile

e liscia mormorava una mattina fredda

una parola che odorava solo di notte sola.

Interna tristezza già eri.

Pallido velluto verde il tuo

un inganno era solo e lieve se striscia.

Ma non perdere la fievole tua forza china.

Risillaba la memoria tua fuggevole

ciò che perdere più non potevi:

perché per tua fortuna tanto non era, già, più agevole.


Se di mattino ti alzi

Se di mattino ti alzi, confesso,

non sei più la sola, non è mai sbocciata

così una tua lagrima di adesso.

Confusa

sei o sognante ne la nebbia

d’una tarda tua parola.

Labbra

scivolarono lisce ne la nebbia avara

(l’anima più non era sola), e l’amara

gioia ch’era già con esse, quanto le inganna

e ne l’aria le separa assidua era

una voce unica tenue

ad intendersi stormente.

Sento a la foce

roca lenta già di un fiume

quel che non era tenue e cadeva

o s’apriva alla speranza.

Ingemmato su la sabbia

un corpo confuso era di neve

e di aria che ti ama o non vuole

più protendersi.

Un corpo vaporoso

discinto in due era di gioia

e di gloria, un ciglio al suo risveglio,

residuo terso teso, di uno che si salva

o che ti chiama.


Fuggevoli gridi tocchi

Fuggevoli gridi tocchi

e non è più una remota attesa

che si prepara.

L’anima odi

e non ti accorgi più di essere

nel blu sognante dei tuoi voli

risorgenti dentro un astro del murmure

ignoto del tuo mare, quello

che, per l’altrui dolore in brevi

folti cigli asciutti, è un canto

separato, forse troppo breve,

remoto in un paese

che la febbre disimpara.

Non so se fu fermo cuore il fuoco

che vivido si accende dentro un deserto fiore

di limone o in due un giuocato

inganno si concede.


Non volubili onde

Non volubili onde valsero

ad addolcire con pena un tuo fuoco,

un talismano grigio e breve, simile

all’animo di coloro di cui non era luogo più

luogo leggero o lungo raggio

o una danza o quello deserto e triste

di uccelli di cui non si descrive più il volo.

Non valeva sogno o arso canto

(parvenze non più vere rapide già erano)

e perché giuoco o inganno sono la medesima

sete, non so qual era il fiore dell’uragano,

quale era ora sordo il senso della materia

nella memoria che più non ti conviene.

Com’ebbero assidui richiami i batticuori

nel fondo lento riamato ecco accorro

e mi sporgo anch’io nel fondo tenue

e vanamente pianamente in sogno

e non sono più che te, che un vago senso

residuo teso lento del tuo sonno

od appena un flutto ombroso.

Lenti

sortilegi i pregi già ammirarono

e non conobbero disperato un abbandono

dentro i luoghi certi.

Canto aereo sonoro scorre alle tue dita

alla tua fine e quella lenta

che più le tenta e in vita

a sommo del tuo cuore

e non conviene più ridire.

Scialbo

era il calore, come se da una vetta

a metà perduta, rinasca, com’è scritto,

in luogo del tuo sogno o di una gioia

d’alba una gioia fuggitiva

così come io ti porgo.

Seria

non viva la verità furtiva

era a metà scritta dentro un cuore

che non più riviva.

* * *

Chioschi son certi,

immutato il dolore.

Dall’anima

non più viva fuggi ora pei boschi.

È incantato il tuo gregge

che almeno metà della metà della strada

silenziosa percorre.

Se più di una volta, non più pensoso

rividi nella mano tua schiva il dolore

e, passo dietro passo, a passo di danza

l’ombra era già acerba ed esigua,

si riasciuga questo pianto

e non quello.

Così dissimile al pensiero

non più prossimo promesso e vero

non più lo stesso era quello che strisciava

con l’ala acerba

accesa dell’alba.

* * *

Strano potrebbe essere. Sulle pianure

era un largo coro. Pensare a certe cose

era come avvenissero solo in cammino.

Non si ode più il ritmico

ignudo rapido viavai:

nel bosco non si ode e non ritrovo

più certo il riposo.

Tu sapevi dolcemente scivolare

e non s’incamminava più nei tuoi occhi nuovi

ne la tua voce umana che fai per perdere

e più non ritrovi un limpido

sereno tuo tenero brusio

come qualunque altra cosa

già accaduta altrove.

La certezza d’avermi accanto

era ormai ignuda al tuo fianco,

semplicemente un tuo nuovo ricordo.

La verità non comprende più se stessa

e questo era quanto d’ardire

e d’ordine era solido al tuo fianco.

Si difende

ripida una rupe da una nube, nella vena de l’oblio

sempre in moto calmo eguale, dove più avida

il tempo non l’attende.

Sapeva un vuoto

il mormorare di opachi freschi venti.

Era gommoso un tuo opaco nulla,

un tuo passo ritmico e poi come uno

più lieve lo desidera, nella più calma

quiete, un grido unico e gioioso.

Era desiderio intenso la tua bruna gota,

la tua voce avida a riaversi

di conoscersi e di intendersi

nel rapido segreto dello sguardo

lanciato in un giorno

che fu tutto gramo in uno tuo limpido

di festa.

Lacerando fili tenui

dell’erba era ignudo o diversamente

attonito un tuo grido sempre eguale

che su se stesso aereo si versa.

Non voglio ricordarmi più del resto.

Nuda voce del bosco in una inerme

tua contesa nella tua voce già rimormora –

– domani comprenderai anche tu! –

e ricorda la tua stessa attesa.

Vane

le mie parole forse dentro

le tue parole furono.

Un fiato ormai dolce

d’alba era sospeso alla trepida

tua sera.

E quando i venti

su le tue parole non sono più un ricordo

e queste sobrie e proprie sono

già di un uomo, saprai già quanto piccole

scintille arsero ed invasero non vive

e lente il tuo corpo prono.

Potrebbe anche essere

quel che avevo richiesto per te: un pensiero

come un piccolo abbandono.

Mutate sembianze promesse trasparirono

(traspaiono anche oggi) e sono quel che sono.

Dimenticanze trascorsero come nomi. Numeri

anche vedrai domani, e se questo è esatto

non vale più per dimenticare.

Se mi dimentico di te sono un puro corpo

teso e se più di una volta un consiglio

che poteva essere modico si sbaglia

una vetta da una più antica

come un nuovo essere si staglia e se ti dico

e rivendico, questa è più già che una tua meta.

Mi converto follemente in una cosa sbagliata

e non riconosco più quanto era il suo nuocere.

Dentro una sera una rosa era così gentile

ed in seriche strisce di un senso era già orlata.

Rincorro te nell’alta effige

d’un muro tremulo odoroso che ci separa

e ti divide col terrore antico

col moto fragoroso di una legge

nella sua grande ala.

Era un ritmo sensitivo

e, per più di un attimo già breve,

era di un silenzio un atomo che dura

e, dentro un giorno immenso

di una gioia severa, una cosa avara.


Sapevi addormentarti

Sapevi addormentarti anche

nella grande ala dei morti

dentro un antico desiderio e, sebbene

rimormoro in umili bende la sete

della salute morbida della giovanile

potenza ch’ebbe una volta la terra

sospesa o tetra o azzurra, arida

ch’ebbe essa un giorno dentro una favola

era un sospiro povero, supino,

spesso voluttuoso che accade

nell’immensità umida, spesso declina

o già si accende.

Sono persuasive le tue parole

dentro un ordine falso, ora anche

un dolore dentro uno scheletro

esatto che presto se stesso, non per molto,

riprende quanto non sapevo più dire

o un tulipano carnoso vivido di fiori,

umida una sera, che spesso, lievemente

smossa la brezza del vento

risplende.

Non so più se fu più laborioso

il caso di farmi sapere nocivo,

quanto fu per me il caso

di non essere vivo nell’opacità distesa

tenue della terra.

La tenuità stessa dell’ora

da sola nell’aria sempre già ti attende.

Il transito dei fiori dall’ombra

alla penombra sempre s’avvera.

Non è più rosea, né bruna una selva.

Ma questo è casto. Un canto, che ti cinge

vorticosamente in due, separatamente

nel tramonto sdoppia fermamente

la tua sera.

Forse non ricordo più nulla

di quanto era vivo e disperatamente

vivido accende entro un ordine curvo

sopra acque la strana sua lievità

morente.

Mi piacque nel sordo

rivolo il ruvido ricordo nel canto

della materia che pareva plumbeo.

Il volo del pensiero pareva nascere

per essere più solo.

Comunque come compenso ebbi acque

e in abbondanza.

Non nego ciò che pareva

per essere più povero.

Sempre odo

per aver avuta la stessa vita

remota in dono, simile a me stesso,

da uno che sembrava per essere già in volo.


Sui monti sapevi vagare

Sui monti sapevi vagare.

Uno sguardo tuo era l’illuminante

magia del tuo sole, quando fisse

remote si adunavano sotto un’ala

di luce forse un perpetuo incanto

o un ritorno remoto da fitte tenebre

note a te sola, la saviezza del giorno

nel senso nuovo denso dell’essere e la notte

acuta obliando.

Una pigra

grigia favola era appena il tuo volto

e poiché apparivano immense

distese le cose era appena

apparenza di cielo o di cose non vere

un nuovo tuo sguardo.

Errando di luna in luna

si consunse l’uomo al tuo fianco.

Tu sapevi quando.

Sapevi quanta vicissitudine

alterna era ora che imbruna

o imbianca.

Averti al mio fianco

era un disegno ancora non noto

dal disegno tremulo d’un giorno

della tua fortuna.

L’abbagliante essere

o il non essere erano simili a un modo

gentile, a un segno tuo simile

a un modo nuovo ad un diverso

tuo transito. Pallide chiome

erano un volatile segno nell’uragano

che io più non reclamo. Chiedere

non era più che un insolito inospite.

Erano nulli i pensieri, quando una squallida

mano, remota ombra opaca, era chiusa

in sé sola alla fine di un anno,

alla tua festa in un bacio.

Ma non avverrà mai più quel che desidero.

Incespicavano ombre opache antiche

sopra una remota brughiera esigua

da una pallida mano trafitte

dentro una lontana effige

dentro un soffio già amiche.


Io sapevo esserti diverso

Io sapevo esserti diverso e ben altro.

Ora odo solo e se penso pallido con gioia

mi affretto. So da qualche mormorio

ch’era attesa l’ora del bosco.

La pallida lontananza

squallida ed altro sogno erano

sulle aiuole le medesime cose

e sono le stesse ore la fragranza

ed il medesimo suono.

Nei tuoi dì chiuso

nella sfera che amo altra e leggera

sottile era una titubanza, la velocità aerea

sorridente, dal colle, del fiume,

e non era più invano.

Sul colle teso ed arso trattengono

il fiato dell’alba i tuoi dì socchiusi.

Altro era rivolto alla gioia teso

terso oltre la velocità nuova del vento

e del volto, che era sulle cose sconosciute,

soavemente era dimessa e distesa

la distanza.

Amalgame di viole

e di rose erano umide sembianze

che apparivano appena leggermente

dischiuse.

Non vane voci accadevano

per chi era chiuso in sé solo.

Era squallido contagio il senso

aereo veloce del suono.

Un fiato

leggero, trattenuto alla distanza

di quel che poteva essere legno verde

una noce dentro una voce

che amava aerea la tenerezza,

era sempre più celere viva del tuo tempo.

Capricciosi eventi, verdi erano pure.

Nel golfo verdi venti accadevano. Verdi sogni

ora vedi, verdi amare come le foglie

sopra una salsedine ingemmata.

Pure, perché nulla mai si abbia,

e tutto sia con pace pura

o verde come si sogna, pallida

un’alterna vena e timida una fragranza

invadono da per tutto il bianco

riverbero delle strade.

Rinverdì in altro amore

la tua sembianza che, per giuoco,

amò di notte, vivida come lampi,

una morte sconosciuta e le tenere foglie

si amarono a distanza.

I sogni sono quieti o violenti

e tutto ciò che non è più fulgido

o nostro nella tersa sera, se non sono ripagati

gli elementi, i grappoli dove non più s’ingrana

il desiderio della sete che non è più aria,

assidui divengono forse un batticuore

dove tutte le membra sono, sulla terra

tenera, aride e distese.

A speranze ti apri o sogni

e fuggi com’è vana continua

questa tua contesa nella tua stessa attesa

nella materia ignuda.

Riodono

quelle dolcezze a fine di un’anima

che erano tue da tempo a cui nulla sembra.


Sebbene le clemenze

Sebbene le clemenze non siano più vive

ed ora rispondo a quanta larvata

salsedine si ebbe in un dono, oggi,

su rive fuggitive, quale alacre incanto

sapore tiepido del ricordo d’un mondo,

nell’essere, pure non so più rivivere

con te a la mia memoria accanto.

Ceduo era già un suo canto.

Vergine vagava un flutto.

Qualcosa che avanzava, tacito,

era quanto riconduce casta una fonte

gelidamente a una luce.

Mi meraviglio, ma non so dirmi

addio.

Un capo dondola.

Lentamente una ghirlanda era di cose:

era fumo, era fermo il suo fuoco a me vicino il suo sonno.

Vedi, non vuoi più sotto le nuvole

sole, sbiadito il sonno tuo,

sederti accanto a noi.

Il sole passa

non più si affina alla medesima altezza

un’onda azzurra, alla voce tua

vicina.

Non so quanto febbrile sogno era

nel tuo opaco nulla a fine di una strada

nel giro orlato d’una veste tumida.

La voce tua non era gelida o più quella,

quella che in pochi parchi azzurri erra di sera

e insolitamente di serra in serra.

Così lievitò una rondine un dolce alito

in un tuo ritmo, sempre, in più lieve selve,

quello che per me era il tuo,

che per me solo ora indovino.


Il tempo della inumidita distanza

Il tempo della inumidita distanza

dentro l’anima ignuda, sia o no un ritmo

sensitivo di una danza, ora so.

So la stellante

vicissitudine dei pensieri

bagnati dalla grazia.

Qualcosa avanza

senza nome, senza speranza

di essere mai lugubre o qualcosa.

Hai freddo trepido alle labbra.


Quando qualcuno si riconsola

Quando qualcuno si riconsola

o raggela nei facili tuoi giorni

sulla guancia, essi sono tutti funebri

e stranieri. Vede egli la medesima cosa

cambiata nella sua sembianza.

Tutta è mutata la mia inerzia,

strana gioia come la sua febbre.

La pazzia è una funebre voluta

che si raggomitola sempre appena.

Le città non sono più quale ozio

felice che ti suggerisce un suono,

e la suggestione della tua stessa calma

fiorisce come la tranquillità aerea

indifesa sempre, quali fili tenui

d’erba d’oro sui folti tuoi capelli.


Pure perché il sapere sia più giusto

Pure perché il sapere sia più giusto

e non quello che mi si indicava

dentro una funebre voluta

non t’invidio più.

Sapevo

come s’intenerisce la febbre stessa del tuo tempo,

e se nel tempo altra insolita usanza

amava di essere e non rifuggono le ore,

una dopo l’altra, sono esse la medesima

tua storia acre e soave

a fine di giornata.

Tu dici quale ordito non sia, quale

filo non svolazza più, quale sopra una pallida

guancia sia la mutata sembianza

che non è più.

Tutta nel fitto volo del suo sole

si duole una luce che sale dalle tenebre.

Di sera sono tristi le viole.

Guarda il paesaggio. Ancora presago

dentro un lago felice è il tuo ritorno

e dentro una sfera luminosa

turbinosa è una voce ancora.

Non è pallida

più un’attesa. Una palpebra si disse

felice nella lontananza dell’isola

dell’ombra, d’una funebre

sua tomba.

Non più il tempo si contraddice.

Un aspro suono di metallo era pure

felice nell’isola della gioia

che felicemente triste ti circonda.


La fonte era umida degli occhi

La fonte era umida degli occhi

come gli antichi desideri o gli inganni

o gli uragani della quiete.

Si rompe celeste

da un albero varia da una scorza la sostanza,

e fu così vario vano il colore

che avevi mite nei tuoi occhi.

Tu potevi diafana e con forza,

sì, dirmi addio, ma io non la fuga

conobbi e quel che era una solerte

sostanza tua nel tempo del corpo tuo

che mai non varia.

Non ebbe mai occhi

(non fu del nostro tempo) una reminiscenza

di labbra tue così dolci e lievi

che si corrompe innanzi l’alba.

I virgulti son moti da un calore della gioia. Ora posso

in ispecie riavermi, ricevermi

in altro luogo a quel che ti fu vicino

oattiguo.

Nel ricordo un filare non così vergine

era su un fiore e vagò esiguo

pallido nel cielo nel suo volo e non richiese

alcun’altra mai speranza.

Incantate brume

assalgono dalle tue pupille cieche il cielo

e già grigia è la tua aria.

Non più sulle rocce, passo dietro passo,

seguì armoniosa una distanza

e non più volte posso fidarmi di te.

Il pallido bruno volto sul sasso rosso

era già esangue o appena era una danza.


Per quanto egli amò con gloria

Per quanto egli amò con gloria

era una pallida titubanza

che si narrò ai margini delle rocce.

Tutte le cose si narrarono a vicenda

l’obliquità compiuta

del mezzo azzurro a schiera.

Di notte si narrò di cose ad altro essere

e solo ad alta voce egli comprese.

Così raccontarono nel dominio della terra

tutte le ore le medesime sue cose.

Sui filari rampicanti erano i fiori

e un’altra cosa attesa oscura

erano altrove.


Erano rose d’inverno

Erano rose d’inverno

per te messe in disparte

che per un piccolo uragano

abbellirò stasera.

Quanto puoi,

se le nuvole sono folli,

non metterò a soqquadro.

Un piccolo quadro triste era di fiori,

quanto io sono per un silenzio puro

felice che naufraga verso di te

ora nel buio.


Forse di te non apprenderò

Forse di te non apprenderò che un piccolo

screzio e quel che narrarono ai defunti

i fiori e un regno di un silenzio

felice da uomo ad uomo per un caso strano.

Di marzo si era od a fine gelida

di anno. E se per più di un tempo

scarno sono compiute tutte le tue cose

che tu più non dici non è più triste

il tuo compleanno, quanto quello di un altro

che ebbe nella sua voce la voglia

e un nome. Sono un uomo meno puro

di quanto un piccolo uragano raccolse

nelle pause sparse e lente, silenti

i suoi colori.


So, non valeva altra gioia

So, non valeva altra gioia

il ritmo di quella che nel mistero

suo si guarda. Sopra una spalla

scivolava strano residuo teso.

Sopra le zolle sparse erano già zone

strane penombre senza zelo.

Oh! guarda.

Non questo o quello ella già era!

o giovava più alla sua giovanile faccia.

Se dormi il plenilunio usciva illeso

da una guancia sul suo cielo,

quando da un vortice del sonno,

rapito esteso mutamento del tempo

da un ritorno della zona sulle acque

trafitta da una lancia, nel suo viso

era l’immagine del vero.


Quando da la solitudine

Quando da la solitudine dei boschi

che trascorreva era preso da un suo vortice

nel giro di una danza, non era così profondo

così stranamente esangue, esiguo,

come tu dici, il batticuore.

Un grido di un anno, immerso nel suo sonno

non era più quiete emersa da se stessa

che si guarda alle radici.

Da pure mani

tenui, increspate ed avide

senza fine con terrore, avida

era pure la tua pelle dal tuo corpo

appena emersa fra il fumo delle nuvole

e le aiuole, delle piante fra le ombre.


Se preso dalla sagoma

Se preso dalla sagoma orlata

d’un tuo senso, ora so a memoria

quel che tu mi dici, ora esso è il cammino

tuo simile ad uno ch’era mio

da immemorabile tempo perso.

Ma più non ti discostare!


Sono in sogno

Sono in sogno. Accade

un ghirigoro spesso

di cui non so l’immagine e la fine

che rade l’aria dentro una luce smossa

e cade dentro.

Sono in me. Era folto

verde cupo, già, solo ora, un cipresso.

Sono sgualcite le tue ore lente

e ciecamente si risommerge

quel ch’era chiuso in me stesso.

Un baratro più non si riconosce.

Lentamente, minutamente è il corso

il farsi lieve suo dolce e diverso.

E perché accennando

alla morte avanti l’alba

si spegne un tuo pensiero, e non posso

più avvicinarmi a un desiderio immenso,

né lietamente accendermi della fine

nel ritorno d’un mistero.

Amico alle mie spalle

un labbro era pietoso e tentennante

che era già per chiedermi.

Se bellezza

oggi ti opprime dai rischi

dell’altrui dolore, seduta immobile

aerea e si difende casta

quanto la nebbia del tempo è lieve,

da sola basta sempre più a riprendermi.

Discesa dalle nuvole ella vede

disteso, odoroso di muschio,

sempre un tappeto verde.

Quel che avviene

dopo non è poco o molto o acerbo frutto,

è un puro poro in un senso obliquo

celato un po’ alla lettera.

Era saggio

come dentro era una sfera, densa,

che ricerca in se stessa

un suo pensiero.


Nuvole sono già strano enigma

Nuvole sono già strano enigma

terso perso durante il mio cammino.

Una sembianza nuova si duole

senza senso verso un’altura

od un’altra lontananza.

La verità che s’incrina è passo leggero

simile alla danza che si avvicina. Così retto

amore ora muore, ora muove un passo breve,

te pure presa nel moto che si commuove.

Nella memoria acqua scialba d’alba

fuggevolmente irrora il tuo volto

di un accaldato senso ridotto

di un sonno ora rivolto altrove.

Nel puro silenzioso respiro del verde

in un punto ondoso è un poro preciso

da un pezzo che in altra sembianza

remota già si perde.


Non valgono mutevoli onde

Non valgono mutevoli onde

o il senso è questo o è remoto passo

quando il tuo riso nuovo

le cose ferme non muove.

Alberi sono scintillanti,

mutevolmente radi sopra la neve.

E perché amore è vaporoso

e gelido come la tua sete,

so quanto aspri sono e diafani i colori

quale sia il tuo viso molle dentro i fiori

e non sazia del suo dissimile calore

già l’aria sia glauca entro le più lievi selve.

Voglio dirti quali lagrime scivolano

leggere da una più lieve gota se tu sei appoggiata

a un albero e un desiderio tuo veloce

è intenso a una vigilia. Persino il senso muta.

La voce del tuo senno al sereno ti commuove.

Tutto poteva essere diverso da quello

che ti attende nell’ala sonora del tuo sonno

o da quello tuo d’un tempo antico nel senso

tuo migliore e da quella d’una profonda

voce che passa e nella pausa chiusa

sua non muore.


Non altra lagrima amata

Non altra lagrima amata

si riebbe al tuo fianco da quell’una

che, come dentro a un’ala, il tempo suo trascorse.

Potevano perduti specchi in miti

voci d’acque in un punto,

quando lentamente inclina umile la vita

o la sua veloce legge, essere prorompenti.

Tiepida una valle tipica

come un’ombra già era,

opaca la distanza querula

nel senso d’una vena d’acqua

o in quello muto celato

che era proprio de l’oblio.

Poteva perdurare con pena

e difenderti. Non più attonita

era dentro una vena varia una danza.

Non venni torridamente confuso

al caldo tuo. Limpidamente

era la neve se adesso più non vuoi.

Erano limpidi i dintorni.

Così diversa era una differenza,

sagoma acuta calata

celata dentro un bosco.

Non altro

riverbero calmo si ebbe, pigra

una foglia che trascorre querula

la lontananza strana, o quando caduta per terra

non sia e mossa dal moto veloce del vento,

non veduto, non celo o più non tocco.

Non mi piace a memoria

trascorrere i dì o non mi occorre

o ne so abbastanza e se qualcuna

delle antiche voglie in dormiveglia

oggi mi scuote, ne conosco ancora solo l’immagine

ne la voragine degli obliati giorni.

Così stridulo da ponente su umide gote

si comprende anche oggi quel ch’era

sollevato in alto, nei cieli, se filtra raggi

di luce rosea, roseo il tramonto, ne la densa sera.

Ti si corruppe e ti si compianse.

Si sapeva sì bene o male nel gruppo

magico, come un biasimo cambi,

perduto uno sbaglio (era appena

una voglia) e così il bene o il male.

Su acque tiepide trascorreva un’immagine

e non voglio più dirne bene o male

o dir nulla di me

o della perduta mole,

fragili rapide le ali.


Se disperatamente l’anima

Se disperatamente l’anima

si risveglia non so proporre cose nuove,

né mai un disperato dormiveglia: non fu mai così.

Me invece essa propose per mano di un povero

ciò ch’era invano e più non sapevo.

Era ora confuso amore, ora acqua acerba

vergine che acutamente in più o in meno

sale sopra i denti e nel niveo candore

nel suono suo si spezza.

Il suono suo non è più qui:

glauco o tinnente arso assiduamente

o diversamente.

Non valgono

più le cose naturali o abbastanza, né voglio

sapere mai di più né fidarmi

a distanza più di te.

Su le cose non valgono chiuse

altre cose, non so più che sia

rapida una cosa che non muore

che non sia già mia.

Sento una pallida riluttanza

così precipua a riaversi da dolorose sensazioni

esatte, come se un opaco sonno dall’alto

del suo sommo di un balzo mi risveglia.

Acerba una vita era già a distanza

e sempre più acerba era dalla vergine

sua veglia.

A verdi intatte cose

è nota la clemenza: così lieve essa era mossa

(non è sagoma gelata sopra il vetro

concessa sola a chi veniva solo dietro

solo accendendosi come gioia irriflessa

di un’opaca pallida lontana titubanza

nel vuoto delle sue sole origini

dal sole a una distanza)

da venti nei quali pesano ancora

le gioie che sono gravi.

A un poro pure è sospesa la suggestione

di una pura vergine bellezza.


Non altra aria ebbe senso

Non altra aria ebbe senso

e quello era il tuo unico sole.

Non valse

più cortina di tenebre o di silenzio

umida sopra le tue zolle che la terra

mobile percorre o quella già son io.

Un frutto era nel bosco verde amaro

come un dissapore che più non riconosco,

un luogo avaro lugubre a metà da dove

non si giunge più al tuo sonno

o in altro luogo.

Se mi divido

e mi spartisco per ombre e nebbie

nel cammino dove s’intralcia

permanentemente semplice la memoria

o ti indico uno spiraglio di uno specchio

che ha avuto più sapore d’una voce

legata ad un tuo fermaglio; non tu certamente

avevi un grido gelido alle spalle

come quello che si muove lento

da cose non semplici e non nuove

come suoni assidui acerbi

già accaduti e ritrovati altrove.

Adesso vieni con numeri esatti

di aria a tutte le ore.

Mai capelli folti,

castani; assidua è la tua sete intensa

dell’amore; ma quando da obliati dubbi

ed eventi si rabbuiano lente le tue ore,

so che mai bianchezza di neve ebbe più pallido

il volto dentro il tuo illuminato dal più fievole

sorriso del tuo sole.

Assidua la costanza ombrosa dei boschi

una sostanza sempre più prossima

all’amore, vaporosa in te ora diviene.


In una triste ora

In una triste ora tu sei in disparte.

Qualcheduno e qualcosa in confuso

come nastri d’inchiostro verso te nudi

ora si versano. La capricciosità è solo

dappresso. In due sulle tue labbra

sulle tue frasi ignude è solo ora il mistero,

come quello di una rondine battuta nel suo volo,

che non riconosce più, più non riordina

se sola già in se stessa.


In erranti canti un usignolo

In erranti canti un usignolo

aereo triste ora si versa

sulla sommità di un albero

o una tomba a sé stessa affine

sempre più pura lieve e diversa.

Se le mie parole più non bastano

la tua voce è nuda e più non riconosco.

Un largo grave era sulla semplice

luce delle strade nella tua luce nuova

di essere soave.

Di un bassorilievo tu sei paga

come dell’oscura e fragile necessità di vivere

alla luce tremante di un raggio

della luna discesa a te per nuovo incanto.

Mi rimerito un castigo per me solo

nella nuda voce tremula che trasse

dal letargo te, sul fango, dov’eri costretta

a vivere nella luce buia.

Lungo un canale era un silenzio.

Di neve era il desiderio delle tue promesse

in una alternante, vacillante sete.

Se desidero qualcosa delle accecanti mete

ora non dico anch’io.

Non mi pare sforzo bastante

gustato invano guastato dal tuo tempo

umido.

Sempre più fertile, più intenso

era parere più povero chi dentro se stesso

in te, di te si risovviene ed ha gustato

follemente nelle sue carezze

internamente la dolcezza delle tue promesse.


Quando ne l’ineluttabile chiarezza

Quando ne l’ineluttabile chiarezza

del giorno qualcosa era così gentile,

come un passo venuto meno

ora da altro confine, internamente

di te riodo e non so quanto,

o molto o poco sia, tempo mi fu concesso:

di starti accanto

di esserti così prossimo e vicino.


Se rievoco ricordo cos’era

Se rievoco ricordo cos’era.

Naufragano così poco casti i pensieri.

Quel che era s’addensa nel buio

delle colline. Ma non basta poca pena

che con pace ho diviso, di là dai boschi

dei morti più veri dei vivi.

Se aleggia un ritorno ai muti confini

è un desiderio di neve sui viali

sui giusti sentieri. Più adorno

non veduto da alcuno è il tuo viso nel nulla.

Quel che chiedi non è di oggi o di ieri.

Mi riaggomitolo nei consumati giorni

più secco e felice di non essere

qui o là più per sempre che altrove.

Di rimando ho misurato uno sguardo

sempre presago, ho mirato quel che chiedi

o che vedi. Odo sempre quel che opacamente

con cura ti giunge. Ha mutato luogo

un’erma linea veloce di faggi.

Se da una cima

di pensieri si sfugge, mi fingo

a metà aria a metà rovo.

Così elementarmente

semplice il tuo viso ritrovo, quel tuo giuoco

così vivo così giusto in un grido

ai confini del viso di un povero.


Non era più aereo, fuggente

Non era più aereo, fuggente o risorgente maggio.

Attonite onde erano sole su le linee già indifese,

un aspro raggio o gelido uno spiraglio.

Uno scheletro era apparso al quale tu gridi

o inclini.

In giuochi lenti dissapori

salgono diafani, e se più non mi incammino

non è più a piccoli piani passi.

Erma

risplende la nudità de la tua morte

su la sommità aerea de le cime.

Se beltà anche oggi si piega

non più felice, non più è una sera

lentamente non nuova e con cura piana

si lega dove più lieve la leggerezza

tenue nascente era dell’ora.

Non vale più a altro senso

che il nuovo colore disperso nell’azzurro,

nel deserto o nell’immenso.

In altro luogo

una linea rinascente era tutta indifesa

già nel bosco.

Tutto manca

dove una dolcezza sia tutta bianca

e lentamente se stessa non conosca.

Nella lentezza la sommità tutta grigia

era già dell’aria. La tristezza non era vera

se il disegno del tuo corpo non s’infrange

nel tuo sogno.

Una bellezza luminosa

fragorosa intatta del tuo viso

nel tuo opprimente con te con ordine

discende.

Qualcosa sorprende

che lietamente, lentamente scivola e ti guarda

fino a che accanto a sé

la tua vita che fu quieta

sé in se stessa non conosca.


Se i moniti sono solidi

Se i moniti sono solidi

o sono solenni i colori,

ecco perché rimiro, povero,

anch’io così poco con gloria

alberi stanchi e i segni

dell’altrui dolore.

Nidi di rondini

sono leggeri nel tuo sonno.

Il guanciale

è sgualcito come la musica lontana,

così spesso, poco saggiamente adombra.

Non vale vena ricavata dal suo pianto

se sono costretto a più non pronunziare

un tuo lento addio.

Dentro una ventata

d’aria calda varia,

dimessa, già dietro un vetro,

sono felice anch’io.

La fine è rapida

alla fine d’una mia giornata.

Una curva vena

aerea risoluta insolita alle sue radici

è roseo mormorio di pendici estreme

nelle quali sempre vivi.

Una mano non più mia

è liquefatta, come sento,

e bene se qualcosa unitamente manca,

o erano meno esatte le parole che tu dici.

Lievemente è sulle vene glauca una stanchezza bianca.

Il dolore fu simile a una guancia

nell’aria vana tenue simile e stormente

e perché una gota non s’ingemma più

di un volubile, volatile tuo segno.

Ad un bacio

una folata aerea che t’investe,

labile così com’era giusta

alla fine di un disegno la tua sete,

era la tua fede vera nella fede che ti salva

giunta alla sommità di un albero;

e le chiome sue e le radici

vanamente apparvero.


Se di vetro il tuo viso

Se di vetro il tuo viso

al collo si congiunge, una luce

che non vedo non è più sulla tua guancia.

Dormi! Non così fitto è il sonno

se già il sogno ti raggiunge. È passato

tutto l’anno. Una stagione

inclemente risospinge il tuo viso

che fu sì povero nel fango. Forse

abbracciato ad una vita che fu tutta diversa

si ritrasse, chi, alla sua sete lunga nel bel tempo,

ombra luminosa dal letargo

ti chiamava.

Non mi risovviene

né mi risovvenne più del tuo corpo

né del corpo nei tuoi occhi

limpidi d’inverno. Da siepi

e colli un fiato chiaro chiamo

da una timida distanza.

Se collo sguardo morente

rifuggo anche oggi dalla tenuità

sognante di una sfera, essa era già glauca vasca vera.

Non mi ricordo più di te preso dall’interno

e un nome non riodo più

che ripido discese a chi fu sì povero

e la sua povertà era tenera

e languente.


A somma nudità dell’essere

A somma nudità dell’essere

ora puoi rispondere.

La verità dell’ora

si concede ed è pago chi dentro una verde vela

giusta una verde ombra vede. Opaca

sfugge una vetta dal cielo che si serra

in un punto di un poro opaco. Sopraggiunge

nei verdi intrichi dei boschi

quella per cui non sapevo più esserle accanto

solo ed esclusivamente.

Erano fischi lugubri di treni in partenza

presso l’immagine dei fiumi

o sulla mano entro la quale il sogno

non più avviene.

Sapevo di una scarlatta

vicenda, di un letto a fianco fuori del suo posto

o fuori anche di mano. Sapevo anche

quanto poteva essere un suono, un canto

casto, canto lento; e se sonora

la sua legge sfugge da se stessa,

era quanto la sua piegata effige

dall’altrui figura corre sempre

erma più lontano.


Naufraghi erano i gridi

Naufraghi erano i gridi, i colori. Matasse

di nuvole sole si consumano fino al loro

nuovo rifarsi nel raggio nuovo del sole.

Sereno nel viso era scialbo il colore,

accanto era accecante l’albore.

Domani è un cruccio che non sa di nulla

perché più addentro era un uomo

che non sa d’altro, se non del suo passo

del suo poco peso dentro un colore

come era una volta quello d’un povero.

Confuso ai fantasmi con altro dire

un altro uomo s’affaccia e l’avanza.

Ma perché una stessa cosa

non poteva essere così priva,

così povera due volte d’amore

una nuvola su l’orizzonte sfilaccia

altro sogno che non aveva più segni

cui lieve si agogni.

Rivolta una donna ad un’altra

non era questa che una confusa rimembranza.

Due volte che sfumi, se era una lontananza

magica, un riso tenue era anche di lumi.


Perché un povero cuore

Perché un povero cuore

non poteva dire sì due volte

e non si ebbe più che una pietra

che simulava la speranza, l’infingardo

volto delle cose un riso aveva simile

al rapido suo sguardo che invecchiava.

Un volto era tagliente

lucido nel sole.

Sperduto era anche un nome

e non si ebbe più chi lo chiamasse

in un dolce lume.

Dolce era una titubanza

pallida e severa era e con essa la regione boschiva

languida pure che si duole

su una guancia.

Guarda di là.

Vedi chi ti veniva incontro con gioia fuggitiva.

Il volto era un chiaro lume del sole e il sonno

non più riletto e stanco era il suo nome.

Dolcemente naufrago con esso sul fiore giusto

deliberatamente pago un filo

tagliente era e dentro in un grembo pallido l’amore.

So che non vale a nulla il vento

che più non approda dove è la tua voce nuova.

Simile a quella che accaduta dentro un astro

nella veloce notte era nella sua forma pura

la sua veste magica caduta

dalle mani dell’oblio veloce

nella tua sete intensa.

Così era simile ed esigua

nella sua luce la voce dell’amore.


Notizia su Lorenzo Calogero

Medico e poeta, lettore attento e appassionato di filosofia e di cultura medico-scientifica, ultimo esponente di una tradizione intellettuale calabrese segnata dallo stigma di un solitario lavoro della penna e della mente (che verrebbe addirittura di riportare al remoto esempio di Tommaso Campanella), estraneo per vocazione e per reciproca repulsione a ogni forma di societas letteraria, Lorenzo Calogero nacque e per la più gran parte della sua vita visse appartato a Melicuccà, un paesino della provincia di Reggio Calabria.

Studiò ingegneria e poi medicina a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica in Calabria, quindi in provincia di Siena fino al 1955, dedicandosi intanto con crescente impegno agli studi di filosofia e di letteratura, e pubblicando a proprie spese alcune raccolte di versi che non ebbero allora circolazione né eco: 16 poesie, nell’antologia Dieci poeti (Centauro, Milano 1935), Poco suono (Centauro, Milano 1936), Ma questo… (Maia, Siena 1955), Parole del tempo (Maia, Siena 1956). Tentò di stabilire contatti con poeti, riviste ed editori importanti (Betocchi e Bargellini, «Il Frontespizio», la casa editrice Einaudi), ma senza successo, e tuttavia assumendo sempre più – dopo il definitivo abbandono della professione – il proprio lavoro di scrittura come un destino e come una vocazione assoluta. Ottenne a partire dal 1955 l’appoggio e l’amicizia di Leonardo Sinisgalli, che provò a promuoverlo e a valorizzarne l’opera, con una bella prefazione alla raccolta Come in dittici (Maia, Siena 1956), e con la segnalazione al premio «Villa San Giovanni», che gli venne assegnato nel 1957.

Morì solo, in circostanze mai definitivamente chiarite, nella casetta di Melicuccà, tra il 22 e il 25 marzo 1961.

Con la pubblicazione di alcune poesie sull’«Europa letteraria» di Giancarlo Vigorelli, nell’aprile 1961, a pochi giorni dalla tragica scomparsa dell’autore, e poi con l’iniziativa editoriale di Roberto Lerici, che curò con Giuseppe Tedeschi due bei volumi postumi di Opere poetiche (1962 e 1966), comprendenti raccolte edite e stralci degli emozionanti inediti dei Quaderni di Villa Nuccia, quello di Calogero cominciò a proporsi come un caso letterario meritevole di più generosa e coraggiosa considerazione. I volumi lericiani andarono esauriti in breve tempo, ma per il fallimento dell’editore un terzo volume già progettato non fu più dato alle stampe, e a seguito di ciò l’intera opera del poeta fu di nuovo come risucchiata nel nulla, rimanendo inaccessibile alla conoscenza degli studiosi e dei lettori per quasi mezzo secolo.

La disponibilità pubblica finalmente acquisita dei suoi ottocento e più quaderni manoscritti, in gran parte inediti, sta aprendo ora una nuova stagione di riconoscimento e di valorizzazione. La sua voce arcana e potente, tesa in uno sforzo assiduo e coerente di reinvenzione del linguaggio poetico, oltre i miti della parola e fuori da ogni compromesso con la pratica dell’uso e della manipolazione, può essere finalmente riascoltata dalla lunga distanza, con una sua precisa e forse accresciuta forza di suggestione.


Se i giorni sono profughi

Se i giorni sono profughi

non è inoltrata una distanza

quale tu dici. Una maniera

era sola e calcolata nella solitudine

dolente. Una vertebra che tenevi

non era un più o un meno

che per tuo giuoco avevi dentro

con certezza nella mano disegnata.

Non voglio fidarmi più di te

o di me che so e posso

e voglio tante cose

ad un volubile tuo cenno

nel senso delle rose.

Un’orma era forse abbracciata

a un albero: era così viva, solerte

e schiva come l’eco che rimbomba

sulle rocce; sulle rocce così ferme

inflessibili e corrose dalle plenitudini

che rimirano dalle altitudini

solo l’altrui dolore.

Un canto

era vago in trasparenza.

So di cosa in cosa

ciò che novellamente amo.

S’accende il sole sopra il colle

nella solitudine morente.

La vita era altra e ben altra

volubile vicenda era una tua stessa attesa.

Qualcosa ai margini dei sogni,

che con te me pure prese

mesta ora si salva dolcemente.

Per puro caso si dondola nel folto.

Non so quali albe gementi o accese

ebbero giardini in dono

e perché da te si ebbe un puro passo

dentro un puro senso in moto.

Sono pesanti e gravide le ore

tue, ora, tristi e vuote ai margini

ai confini delle cose.


Decaduto ogni giorno

Decaduto ogni giorno

non udrò più un vero viso denso,

un albero mai vero.

Che diranno questi alberi

che soli intercettano dentro un’umile

piega l’ultima sillaba del giorno

o sono essi forse appena un ultimo

estremo suo saluto?

L’umile erba cresce a stento,

così strani amori propone come prima

mai veduto avevo nascere

e soli poi accrescersi.

A morire costretta

come un frutto maturo la terra

nel suo letto era lenta

già acerba.

Se fuori fossi io

sarebbe una novella salsedine

dentro una pinguedine ricca e asciutta

che dal mare non viene.

La sera febbrile e paziente

era certa di sé, discesa

dal suo transito ultimo

felice che in se stesso si serra.

Querula piegata in disparte

era una morbida guancia,

quando da una rinuncia

o da una nuova nascita si lega

solennemente triste alla memoria

la sete dell’aria, solennemente affine,

perché ancora si sogna,

ed una nuova bilancia nuda

appare dentro un’ala che è bianca.

Perché non ho più nulla

e nulla poteva più essere

soffro lievemente con tristezza la morte.

O colpisce me lentamente oggi

una lancia?


Non vale gioia densa o silenzio

Non vale gioia densa o silenzio

vegetale in questo va e viene, in questo

murmure di onde silenzioso

sulla ghiaia, nei vaghi schermi

di una conca che poteva più non essere;

e perché una gioia non si rischiara

più due volte, forse, purché silentemente

aggiorni, una marea conclusa

era di baci.

Pervinche trovate a caso

erano in lievi selve. Forse non più se ombre

erano esatte. Un brivido gelido

riconduce le lacustri foglie

dalla loro ombra alla celeste

luce, che vivida riaccende

sulla cima immota di una bontà conclusa

coi tristi inganni i tuoi giorni poveri.


Forse da autunnali chiome

Forse da autunnali chiome

il vento impetuoso si ridesta che sai

che era nulla nell’alba.

Ascoltavo

il primo tuo giorno al primo venir meno

di esso secco sul labbro che era tuo.

Panico

o paniere avevi nella mano

ma non duravano più come un pensiero.

Scolpito era nelle vene il tuo cielo,

il succo del secco sopito vago tuo incedere.


Ti siedi fra noi

Ti siedi fra noi e sorridi; ma ora

è la piccola sfera di più di un anno

che ti rimanda alla rinfusa a quanto

leggera sai confusa in ogni tua parola.

Gli istanti

sono distanti, infermi.

Non hai valutato

la presenza delle labbra tue carnose:

sono esse un raggio diffuso e soffice,

leggero che sale dalle valli

alle vene delle tue voglie vane, nelle veglie

tue che non si sono mosse su le foglie

o non furono giammai.

Valanga di nuvole

folli sono le tue fughe, le rose rosse e oscure

nelle mani chiuse tue che più non hai.


In questa sera in cui s’accendono

In questa sera in cui s’accendono foglie

carnose e, quando intirizzita

è già pure l’ombra, o è una schiera

che risillaba forte o recentemente

è amore.

Come nel flutto il vortice

si concede e ti commuove, tutta ti stringe

e a volte ti lega nel roseo cammino

che fai per le tue valli.

Sono soglie o è il contenuto di esse.

Sopra tegole rosse si squarcia roseo

bagliore leggero il sonno

o appena esso è il benvenuto.

S’accende

fra fiori il rosso incarnato

cupo freddo dei tramonti.

Labile una presenza non vera

si muta con gioia in questo

quadrato stabile di aerea angoscia

in cui per te la sua voce

mite è il suo sonno o l’aurora.

Sento nei lenti segni l’incarnato a le tue parole.

Ebbero elleno nella sera il tuo pianto.

So che non bisbigli erano sui frassini:

striduli erano e fragili le voci d’un passero

e se si bisbigliò d’amore, questo era quanto

di più stucchevole era ne la tua natura.

Della sagoma bruna mutata rossastra

dei monti non dico. Forse si passò con gloria

al dimentico inno che fu della gioia

o al suono, a sommo, del sonno esatto

che fu sulla guancia o ben altro che tu sai.

Lascive e sole erano isole al sole dove tu vai.

Il tuo incanto nel mattino freddo

in questo nastro ch’era d’inchiostro,

per te era certo sempre nelle brumastre

serate ch’erano d’inverno.

E poiché elleno ebbero vera pace

nella vita dei mattini freddi

non era più acuta più viva di un sasso,

attendendoti ebbra, la gioia che sillabava

fra i denti vivi sul tuo labbro.

O una smorfia pietosa era,

una storia d’amore a me accanto

di te già bisbigliava.

Né vale più riposo.

Nel mio letto gustavo come nei tuoi occhi

erano veri i tuoi lineamenti finti.

Lentamente fuoco s’avviva

e ciecamente così rapido ti sorprende.

Ben altro altri sapevano di te o sapevano

solo d’un tuo triste inganno.

Spento era il canto nelle notturne

vene delle ore lente del tuo sonno.

So quanto s’impara nella stessa attesa

e se appannavo un poco il sonno

e quanto strappavo come efelide

leggera da una gota su una riva,

non era opacamente felice di sorprenderti

un tuo sogno cui tristemente

più non ritornavo.

Non era poco

e non so che gioia vana era e più il dolore

quando una vena d’aria chiara

era nei clementi occhi tuoi il colore.


Sono moniti gli accenti

Sono moniti gli accenti

che più non rivivo.

Quando sei seduta

dentro un piccolo cristallo che ti rimanda

una luce smorta in te già decaduta,

non so quale sia più un grido d’erba

tenera che vie più s’accende.

Una mano ti si porge

che violentemente saluta

e strappa te timida solo a te stessa

di rimando.


Lugubri magie sono le tue parole

Lugubri magie sono le tue parole

e le mie con esse, se in luoghi

scabri fra le cose, aerea risorge

tinnente e fragile una voce,

che silentemente attanaglia

le prede su le prode.

Rudi scarni silenzi abbandonati

fra le canne premono il tuo corpo

nudo come se fossi tu caduta

alla neve accanto.

E perché gioia possano avere altri

ora stai a vedere. Glauca

e rotonda preme la luna

la tua faccia rotonda e bruna,

una città scomparsa

sconosciuta di ossa

e la mano tua con furia.

E perché disperata

una distesa occorre con pace sempre

ora non so più nulla.

Più languide erano ed umide le tue labbra

nel tuo corpo avviluppato.


La verità comprende

La verità comprende più dolcemente

e lievemente le cose. Inversamente

non si duole per non credere come vivida

e tremula non fosse più la luce del suo sole

in un silenzio suo ch’era di rose.

Albicanti righe erano e strane.

Un pensiero erra remoto o era altrove.

Un contadino numerò i cipressi

venuti da altri monti lontani.

Un pallido rinvio delle tue labbra pallide

alle tue mani ora si muove.

Per questo

quanto era, con forza vera, un duttile segno

di neve, un nodo confuso

ora diviene.


Scarno saliva un lume

Scarno saliva un lume

da altre distanze, perché un sogno,

non più profugo, era quello che ti lambiva.

Altre tristezze abbracciate erano alle lagrime

e chi aveva di te in sé vago un suo disegno

dall’orizzonte tremulo pianse

vivamente presso una riva

pensando alle sue cose.


Ogni minuscolo attimo

Ogni minuscolo attimo dell’esistenza

non più proclive alla distanza

per un modo nuovo di essere

poneva esigua una differenza rapida

celeste al dolore umano.

Così ho consigliato per giuoco

chi poteva essere albero.

E non giudicarmi

se vidi anche una schiera o per non più rispondere

mi sono inoltrato, ove una pura vena,

nel fermo fuoco, era già vera.

Un freddo bagliore d’aria

gli occhi corrose.

Chi era tagliente angelo

bisbigliava forse oppure con se stesso

dorme.

Non giudicarmi

quando sono contro vetrate glabre

o sono solo sulla nuda siepe

o sulle chiome di alberi e le orme.

Non più opprimermi se fu vano

un giuoco della libertà solerte

o essa fu vana e timida al tuo fianco.

Se qualcuno sbagliava, così triste

la notte arida non era, e qualcuno

dentro l’aria stellata si liberava.

Dorme ora il muto gregge

o la lattescente spiga che ti piace.

Nella tua mano era

il modo di non vivere o di vivere di meno,

porgere quel ch’era giuoco al tuo sonno,

suono diafano all’ora d’un bosco

od occiduo e lontanamente triste inganno

se nell’aria giusta ti svegli.

Poteva pure essere calcolato

un occulto modo di essere così lento

in ogni muscolo contratto, come il ritmo

del cadere delle veloci messi

del grano o il tono della voce

ch’era sulle trecce delle rocce

protesa verso una stella

o una luna che intravedeva

solo se stessa.


Quando mi maraviglio

Quando mi maraviglio o ancora

sbadiglio (non era pietoso ritmo più

e più non mi contraddico)

sangue vermiglio era allo specchio

del tuo ginocchio, nel mattino

che si sporse ombra opaca solo all’orecchio,

e qualcuno era una densa spiga,

cui quando ritrovo me stesso mi rassomiglio.

Ma se una diafana corrente più non odo

nel lento discendere d’un lontano muto gregge

nel giorno tuo glaciale non so chi con pena

fu con me sì mite.

Rinasco nell’onda che rinasce

e fugge.

Io stesso corroso

dalla vetta alta dei monti non so riconoscere

chi non ha più corpo.

Ne aveva uno

più biondo o mosso e soave il bosco

o nella sua piena veloce il fiume.

Nella valle un frutto era aereo denso carnoso e pieno.

Ma tu non dubitare più del mio disegno.

Al caldo geme la vite, dentro la pioggia un raggio.

Era una struttura che più non riconosco

quando la vedo dileguare.

Un attimo si spegne.

Una vita

sopra la neve cade.

Non vede rauche

arse le vette del colle chi non sa che argini

nell’uragano erano ed anche oggi arido un ricordo

o rorido, più puro, esangue.

Forse amarulente onde con gioia,

con pena erano.

Il canto inoltrato

ella vede, come un dì rinasceva

il flutto lento della sua materia,

la polvere ignuda lenta di giugno,

una fonte elastica alla sua sorgiva

e dalla pelle acre il frutto che ora s’ignora:

odora esso così labile

pallido, cieco non più risorgente.

Non vale una mano se pallida

com’eco era ti dico. Tersa ne la sua struttura

la guancia gelida, com’era una volta la tua

tesa su quella tersa che fu di un amico.

Ritorna il lattescente odore di cose,

il gruppo magico di una sorgente antica.

In ogni pena alla tua pena accanto

più non rivedo come fu pallido il frutto,

l’albore, l’alone, il dolore di se stesso

e come fu strana, strenua, stanca la tua poesia

quella di un giorno che è ora solo quella di adesso

e almeno una volta, nel suo giuoco,

ti fu benigna e amica.


Ora so. Poteva pure non essere

Ora so. Poteva pure non essere

diversamente lungo la tua strada

senza fine, per ordine d’un tuo tempo

antico. Prendi ora senza scopo

la strada che tacita l’avanza.

Infine

non è più accurata l’arcuata volta

dell’azzurro cielo nel silenzio

proprio del suo confine,

ove labile un tuo disegno ch’era schiuma

la chioma era già di un altro

nel mistero non più tuo,

che non più dico.


Forse perché volubile

Forse perché volubile

questo modo di essere un silenzio

aveva oltre quello che aveva la vita

la primavera che viene ora già odo

lieve sul tuo merletto

come altro silenzio non era non detto.

Non altra pace era vera che la medesima

origene di un mondo remoto

indifeso sulle labbra tue chiuse

dentro un disegno o un mistero.

L’euritmia ha un orecchio teso

sensibile sopra le acque che scopre in te simile

dopo la mezzanotte solo se stesso.

Il fiato era molle.

T’investe il nevischio che invetra

la tua pallida faccia dopo la facciata

aerea triste del colle fatta ormai in fretta

una triste sassata.

Ma non dirmi

mai quello che veramente non ho mai fatto.

Una risposta

era pronta in un medesimo punto,

in un punto odoroso che passa

come l’ombra non mia (ondosa una pausa

era come un desiderio già teso

sul suo medesimo lato).

Quanto era vero

era in te già calcolato.


Non mi piace intendere

Non mi piace intendere

ciò che dissimile e liscio

scivolava con pace teso all’orecchio,

e poiché un dissidio era da te colmato,

un desiderio si annunziava.

Acuminata dentro un’unghia

con gioia era una pace non vera.

Era con tanto incedere di passi tuoi

ed ordine una vasca una sera.

Ma se si sgualciva il tuo pianto,

una vena era rosea,

glauca all’aspetto una rosa vera già era.


Sento capricciosi eventi

Sento capricciosi eventi

e con ordine un va e viene

in questi squallidi

umili orizzonti, dove, forse, non so

più quali nuove prove gioie più non erano

e, certamente, non erano d’amore.

Un desiderio s’accende e così bene.

E perché una curva non era più sognata

e più non era che un novello cedere,

ora provo il mio nel tuo nome esatto

o quello dell’alba già discesa.

L’alba era un tuo vero nome

o quella tuo d’un povero, nell’aria bassa

che si stringe con novella gloria

com’eco pallida alla bava,

al solleone, di una larva.

Ma non ti accomiatare così triste da me.

So cose, so rose, so un novello nome.

Verso essi si stringe eco pallida il tuo labbro

ad un senso tuo veloce.

Non so intenerirmi

solo più con me, verso me solo stesso.

Vergine e distesa tu potevi tutto ricoprire.

Tutto riverso sono dentro un mio pensiero.

Frainteso candido frutto lieve è già un baleno

o nei lontani termini del cielo, cieco

dentro di me non so più dirti

addio.

La pietà come in tenui arbusti,

steli sterili, tenui, dormenti bisbiglia

gelata e comprende molte cose

a partire già da esse.

La fatuità

leviga come strani gridi le foglie

su le tue dita stesse.

Il non aver pietà

più che di se stesso (riconosco un grido

sfuggito solo adesso) era se come

tutto polvere e cenere diviene.

La falsità dell’ora nella mattina

grigia non aveva aspetto:

fosse questo o quello tu solamente

potevi trattenere riconoscendone un difetto.

Amalgame rosee furono pesanti.

Ora tutto era di puro vetro

e non so accompagnarmi ai soliti passanti

lievi che oscillavano sui tuoi lievi passi.

Distanti erano l’uno da l’altro;

e da se stessi sempre indietro.

Come il flauto d’un flutto o il flutto dentro un flauto

era la fine canora ancora alla fine tua d’un anno,

in cui per la solidarietà di se stessa

coll’aria esatta, nitidamente

precoce, nella nudità tua e di quella dell’inverno

di me solo ti dico e solo già ti attendo

nell’ora tua lieve ai cui passi tuoi leggeri

e ignudi io mi addormento.

Non era più solamente levigatezza

piena di trecce morbide

la scintilla che avevo presso dai tuoi occhi poveri:

accanto era a me la tua vita stessa,

un riflesso pallido di un tenero tuo passo

che riconosco solo adesso.


A prova non più erano

A prova non più erano i tuoi capelli

profusi nella mano.

Tu potevi addormentarmi.

Una scintilla, un più o un meno

di un carnoso fiore erano taciti, appunto,

da soli a te accanto per solitario incanto in un viaggio.

Se a tarda ora era arida

una pupilla, forse sognava la puerile

la sorgente tua grazia

trattenendo sé stessa sempre

dentro una pura vena di onde

presso uno che ti consiglia.

Non erano artefatti i giorni.

Nella mattina fredda

si levigarono intatti i sogni nel tuo moto.

La strana origene era sempre indifesa

dei fiori nel loro senso del colorito pallido.

Perduta tu eri così presto e sì bene su una via

come presso una riva o altrove

era un tenero tuo bacio.

Se qualcosa taccio

non era più un torrido fiore

di cui artefice da solo già mi faccio;

o era un modo azzurro di essere

che languiva sempre in sé stesso, sempre solo,

vagando intorno alla stessa vaga vena di onde

raccolta presso una conchiglia.


In segni sopra le mutate cose

In segni sopra le mutate cose

lo smalto s’inclina e legge.

La medesima

avidità si rovina e fende.

Una colonna ch’era d’aria

a volte la rischiara.

Ma ecco non so più accorgermi.

Lenta dentro un gomitolo freddo

una mano era gelida e leggera

in risposta già del tuo labbro.

Intirizzita ed umida era la materia

ignuda dei fermi tuoi capelli.

Sgualcita nel pianto una guancia

una stella era che non conobbe mai l’aurora

nei più dolci celesti suoi momenti.

Rudimentali ombre sideree

un fitto moto rotondo non erano

mai più.

Imbiancavano la fitta

folta strada in occidentali vuoti,

esseri cui quelli che nella loro strada, man mano,

restavano indietro,

venivano più incontro.

Né mai essi conobbero il mio voto.


Perché accadrà crudelmente

Perché accadrà crudelmente

talvolta (ma non ti accostare!)

la morte cadrà come un piccolo segno

o una piccola sposa in un punto scialbo

tenue stormente ad una persona risorta

o una promessa levità

ch’era un cristallo; e perché a te più non s’addice

nella salsedine della solitudine

dello spirito dipinto che ti circonda,

mutate le orme, la tua mano com’eco, ti dico,

rimiro lontano, perché più non mi sovviene

né so vivere diviso o diverso da te.

Ora ti puoi sedere

e, se osi, camminare in un prato,

virginee forme rispunteranno le stelle.

Su sabbie faticose o nebbie finte feste piccole sono di un ballo.

Su le tue labbra arse e secche

una città è tenue, puramente languente.

Sono estinti i rumori delle foreste dal lobulo

al vestibolo del tuo orecchio.

Non ti perdere

più per pudore, perché piccole idee,

se vuoi, come un talismano puoi possedere.

Le città del monte sono già avare

nelle loro origini, nella loro quiete

e tu, prima di sera, nella solitudine

che sarà di ritorno, inglobata sarai

percossa sempre dentro una sfera.


Quando i monti

Quando i monti sono rapide scintille

e i prati pure, tu nella lenta

scaturigine quieta della sera

ti fermi, oppure hai in lagrime

a ridosso le tue vesti. Un fiato già ti opprime.

Miriadi di faville sono dentro un vetro il bosco,

o solo accanto nel ricordo.

Ma, vedi, sulla solitudine

delle onde e delle strade, passo dietro passo,

(per non parlare più di te) si sono mosse

le solitudini dei monti nelle cime e già le acque.

Fu quieta

e lenta la tua origene. Una rinascita

appariva piena di ricordi e di riguardi.

Se uno era già vero

una coccarda fu una medaglia.

Chi aveva un ritmo indifeso

ti ricorda sempre e soavemente

e dopo le ore lunghe e lente del riposo dentro un’unghia

nelle ore lievi e brevi del tuo tempo.

Se al largo vai

la melodiosità di eventi

vana fu dentro una conca

una dolcezza rara.

Diritta cogli occhi degli angeli tu stai.

Ora ricordo anch’io e se m’interroghi

e rintocchi odo di campana

non so se era il novello distendersi

del tuo giorno (acqua scorreva dentro

in un limpido ruscello).

Il non essere

e l’essere erano suono. Da volatili fronde

si stampava l’orma. Sopra il mare appariva un lampo.

Un bacio era un fringuello che più non mi fu dato

di riconoscere: se fine era

o parte vera già era o gioia o fine di se stesso.

E perché mi piacque sempre

il tuo viso attorno e perché scabre

erano al cuore le tue parole,

un monile era rappreso

e scintillava soavemente.

Volli difendermi dal tuo cuore inerte.

Sopra un tappeto grigio e verde

ti avevo tanto attesa e non volli più rispondere

a qualcuno che tu già sapevi.

Tanto tardo

era un mattino freddo, quanto dal nucleo delle cose

era disceso. Così mi modulo anch’io.

La gamma della vena giusta nel sospiro

glaciale era dei monti. Ora non voglio

mordermi. Il fumo gira come un girasole

e tu eri sola ad attardarti

per attendermi dentro una vana selva

nella glauca nudità azzurrale

che non più si salva, perché di te schiva

era la gioia nell’ebbrezza e la bellezza.

Vai trattenendo il respiro

sulla vetta unica dei fiori.

Non sai quel canto

era separato pronto a tradirti. Pure

una secchezza era l’albero segnato.

Un ritmo era cieco, era così fremente

così fievolmente inerte,

inavvertitamente esatto denso a smarrirti.


Tu potevi non chiamarmi

Tu potevi non chiamarmi. Ora vieni.

Sono le nude vene che ti dettero

un travaglio antichissimo, e sono le mani

dure e piene che contengono un desiderio.

Quando dai corpi nostri un lago

bluastro od i fragili o del mare, pinnacoli

erano una luce d’albero e tolsero

da una vetta d’alabastro un nome

cui non sai più pensare.

Si toglie senso al cielo d’una vetta.

Per esso che viene all’improvviso

nudo non era quel che resta.

Non era sangue più del nostro sangue

il mormorio odoroso del tuo viso.

Non era beltà da non riconoscere

se stessa, vergine e fraintesa,

molto lontano, da qualcuno che non ritorna indietro,

nella luce rosea e rossa, smossa, in un tremito, al tramonto

in un’ora come questa che è imprecisa.

Al tuo labbro

camuffata era così una luna che si dondola,

una linea veloce ed umida,

nuda e muta sempre ed unita a volte.

Nella pruina riconosci te stessa sempre incerta

sopra una rapida tempesta;

e perché i sicomori erano per aprirsi

non chiedo più di te che qualcosa oggi: un oggetto

umile, dentro esso il mio, un cieco acquario

in sé sempre trepido a smarrirsi

ed umile com’era la gioia tua nella tua gloria,

che è l’annunzio che ci fa tiepidi

stasera; e non più altro ell’era

di quanto era vero e che ella già ignorava

della sua cupa storia.

Sebbene le tumide parole già da un anno

non erano quelle più a ridirsi e adesso posso

muovermi su molte cose, nessuno

sa che sia: se era addentrarsi

nel fondo umido di un poro

o volatile era ombra cara amica

o se per un caso di quel che non posso

più comprendere, ombra anticamente

era di sé solo tacita, indifesa.


Forse l’annuncio vano delle parole

Forse l’annuncio vano delle parole

ci farà stasera accanto e non sono

amalgama di boschi già le prode

dove sopra un marmo t’attardi

oppure siedi.

Non sono più frammenti

i lineamenti puri delle cose

come persone deste e vive oppure morte.

Mano a mano

erano alberelli che nascondono

umidi i tuoi begli occhi freddi.

Sui prati

ai tuoi piedi freddi non so più vivere.

Echi sulle città si spandono

dal tuo labbro pallide.

Embrici vedi

e poi qualcosa accanto

che si regola sui tetti

del color della viola pallida o bluastro.

Non so quali siano più le voglie

per le quali tu rivivi.

Tacite erano esse

le foglie del nostro nome. Erano forse il nome

del nostro amore o del nostro cieco incanto

di cui da anni siamo privi.


Non so quali siano

Non so quali siano le più sperdute

e cieche rive del nostro incontro.

Qualcuna si staglia

qualche altra va squallida a ritroso

o plumbea.

Gelida da non più ridirsi

è ogni tua parola.

Ma perché sempre non sia

sopra le origini, indifeso nel suo tempo, s’ascolta a monte

l’umile orizzonte e, bene intesa,

riflessa è la tua morte.

Bene o male non so quale sviluppo

sia dei corpi nostri o vivi o morti

in un gruppo magico, in un modo

che si rinnova più alla luce.

Tu eri glaciale

alla luna tagliente del suo tempo,

nel freddo sereno sempre intenso

sempre uguale.

O si rinnova

la prova del successo o l’avvenire

non è più nostro; non è più un modo

o è un modo rapido irriflesso.


Un punto, una sagoma

Un punto, una sagoma alata erano

com’erano vane le promesse e, se mi ricordo

di te ne l’alba dei sentieri, non ricordo

più così bene come scendeva accanto a te

tanta ombra densa di pensieri, se desiderio

o sogno erano vaghe cose e la nebbia era pure

calcolata con amore o già era insuccesso.

Una gioia s’accende su le labbra.

Tu eri in sogno simile al suo vero, quando

da l’umiltà de le sue stesse cose un più o un meno

eri una goccia gentile appena giunta al suo successo,

e si fende in margine un tuo nuovo senso. Una scintilla

era pura che si fermi.


Non mai il mio riso

Non mai il mio riso mi raccolse o amore

e non bruciò nel cuore

con mano esile e pia

chi non conobbe il batticuore

che lo trasse a una riva

così dolente.

Il fiore, il frutto carnoso

delle ambagi arsero vivi

nelle vene dell’altrui dolore.

A te di sterminati

augelli un fiocco era d’amore.

Una simile festa

non era più per l’altrui colore.

Remoti ammonimenti,

comunque, una riva d’alberi

fissa, su densi argentei capelli trassero,

quando da vivo ora ti guardo e da un senso

non più mio (ora è di tanti)

una solitudine clemente.


È permanentemente vero

È permanentemente vero quanto sai

è perché rosei ondeggino fermamente ai balconi

(vedi, son nere piagge acquatiche

e non più rigermogliano le lontane chiome)

fiori accanto cui tu siedi, è pure il vuoto.

Mi seggo anch’io, ma non l’ultimare

delle cose è strano, così tardivamente:

non so se era come più un nodo rude

o era di puro vetro fermo sui capelli.

Tristemente guardo e nude sono

o già ondeggiano le cose nel tuo sguardo

pur oggi rivolte come ieri altrove.

Esse adesso sono già in frantumi.

Non ti risovvenire

più di nulla dei ciechi boschi; chi s’attardava

era dentro una lieve culla in un barlume ch’era cieco

solo di notte sotto umili tende; e perché a tarda ora

non amava ardire tanto, cieca era una luna

coi pori falsi lievemente smossi

dentro i suoi lineamenti, leggera

tenera e stormente era la fatuità dell’ora

sulle orme delle strade, già deserte.

Nemmeno io posso ricordare.

Chi sé riesuma dentro un’antica legge

o è sopra un’amata aiuola, una sorgiva

che di sé sempre lo circonda

di sé anche ricorda sempre.

O era una vaga

canora immagine appena smossa

di una immagine boschiva della luna?


Come acqua cedua

Come acqua cedua

mi riattempo nel tuo bosco,

ma non so nulla più di te.

Amorfo era campo

che più non ti circonda e, se mi sporgo

e non so più porgere, di te non odo troppo

come chi verso te propende

è solo in un gruppo atono remoto smorto

e attentamente.

Di te era forse tutto inutile

sottile leggermente attesa.

Era lugubremente ignota la tua sera,

nella parte delle tue piccole parole.

Lugubremente avaro era timido il tuo gregge

e la tua sete intensa nella parte tua del golfo amaro.

Se io so o non dimentico qualcosa

appena (mi conviene dimenticare,

perché nella vita mia perplesso

di te teneramente lambisco

una palpebra ignota e sono di te più dentro)

infrequentemente rude, come una ruga

o a strisce nelle vene tue carnose

implacabilmente attendo.


Perché da tenui parti

Perché da tenui parti

non so più che una stella sia vergine

o il frutto o non più ti lambisca,

la sete mia nel tuo letto o un tuo ritmo

non erano più cime abbaglianti di alberi

il tuo tutto.

Abbacinanti scheletri erano pure una folta tua schiera

e più non ardisco chiedermi una solida cosa,

non so più che sia vero o più indietro o già indarno.

Triste navigava od olezzava una foglia

su un ramo al tuo fianco. Querulo un tuo respiro

accanto al mio più non riposa.

Non erano gentili

purtroppo le tue parole al mio lato

e non so più a chi rassomiglia l’amore:

se non a te ch’eri vergine o sposa.

Avevano le ore una stagione uguale,

una voglia di essere lente, una regione proclive

e diafana, accanto a le tue ciglia,

dentro una sete ora carnosa.


Se savio mi compongo

Se savio mi ricompongo

e comprendo già di essere

non posso più in un diffuso

sortilegio essere un rossore

se non so se qualche cosa faccio.

Cortese era una mattina

acre dentro già uno specchio,

un piccolo talismano, e se ricordo

è da un pezzo che non riodo

dentro la sua sorte la tua sete.

Odi il mio nome oggi.

Era di pietra esso. Una cortina

di tenebre densa nel cielo

non salva più remota una morte

e neppure una lagrima.

Una gioia era lugubre

ed avara e casta.

Se di quando in quando

non so più il mio nome,

né come lento verso esso si versa,

pure si prepara,

né posso più comprenderti.

In un limite freddo dentro una sfera

con quel che fu compiuto

con altro nome, dentro un filo

di selva e salvia si salva

un altro bene o già era una bara.

Non mosse vene glauche più la pioggia.

Era a monte la morte.

Schermaglia

di nuvole folli rosee erano già canto amaro

dentro il tuo sole.


La vita chiomata, al largo, dei sogni

La vita chiomata, al largo, dei sogni

si spegne o sono le medesime oscure cose,

e perché nulla di te si spenga

può essere presso a te simile dentro la gioia

l’altrui dolore.

Non ti rimane

che il passo che non puoi più muovere

nell’attesa sempre ferma lugubre delle ombre,

il quale non più ricco, non più indifeso

non più riemerso, non più è caso

più cieco e soave dell’amore.

So non più diafano nero azzurro, da un pezzo,

a prezzo di quale liquore solo tu sai in te che sia, il tuo cuore

non più sazio non più cieco si risommerge

in una piega ritrovata altrove

e così bene.

Com’eco ti dico te stesso

sorregge i tuoi primi passi muove

la scorza che fu tua, il tuo primo premio

un’anima come una larva che fu il pernio

della tua natura nelle prime nozze.

Verrai domani con me

con le nuove tue penne o non verrai mai

più senza essere atteso nel tuo tempo.

Il tempo è acuto,

crudo lo scampo che il lampo

dei tuoi miti occhi teneri contenne,

o non puoi sapere dei morti

o dei vivi o di me o come acuta

la pioggia se stessa rovescia

e solo domani più non s’ode.

Era una lattescente spiga o un frutice ondoso

maturo e immerso già nell’onda cupa dell’aria

nel corpo tuo composito che dal tenero tuo sonno

nel tempo tuo acuto appare appena

e già si muove.


Son distici a catena e l’innegabile clemenza

Son distici a catena e l’innegabile clemenza

tesa con calma, un passo magico aereo sviluppato

era già troppo ai confini, e quando

da la necessità delle ombre vien freddo

domani non saprai rispondere.

Con distaccabile

pena son fredde lievi fievoli zone

agli orizzonti.

Distesi distici

esemplari sono semplici e nudi su le sommità delle onde

quando apparenze non nuove riappaiono.

Si scindono

labili le conseguenze.

Pervinche

furono trovate a caso in lievi selve.

E se di te si trae qualcosa che sapevo

spesso acceso era lieve un senso tuo d’un bacio

che sospeso in arco sui monti dondola

e si riordina e poi riposa.

Una labile divergenza era nei remoti

mondi ai miei primi umidi passi

da quelli che nei tuoi furono i migliori.


Se accanto al declinare

Se accanto al declinare mite

dei monti del dolore umano

una progressiva gioia odi ascendere

e non più una labile tomba, non più è scomparsa

l’intercapedine leggera che ti circonda.

Sono vivi gli aliti non vivi dei vivi

veri dell’aria o sono veri solo

e più proclivi nella penombra.

Una mano ti si porge corrosa

già con ordine in ciò che non mai saprai,

e purché sia simile al tuo vero

senso si riposa tacita una quiete

che non più schiva è di nulla avara.

I lineamenti dei venti freddi

odi della tramontana

nella solitudine che ti ricorda

e nella tua pace densa sulle colline,

la solitudine d’un tuo lungo sogno

o una sola delle voglie tue

ch’era dentro alla pace del tuo corpo inerte

la sola necessità del vivere

erano dentro un regno tuo.


Non mi ricorderò mai più di te

Non mi ricorderò mai più di te

se oggi non so e forse non saprò mai,

se non saprò mai più in fretta

di ora quanto sono tacito e schivo

e non conosco già nell’ultima ora sola una vedetta.

Una mano corrosa dai venti freddi

non ho mai come solo scortato.

No so più nulla della solitudine tua,

né di quella da prendere

se per patire c’era già tanto

e per vivere hai solo tanto tentato.

Ritrovo oggi me stesso. Sento da alpi

quel che albeggia così lievemente,

quel che dalla nube scende odoroso

ora clemente e così uguale

o com’era a volte dentro una nube

solo una scheggia.

A mutati eventi era una mano gentile

sotto la pioggia. L’uggia più dubbiosa

più non era nei suoi mutamenti.

A mitigarti era del ritorno forse la noia.


Gracili corolle erano

Gracili corolle erano e una mano

le aveva portate, simili, con sé.

Senza dubbio

era vano evento anche di mistero ed ossa.

Se le cose erano giovani di un gravame

non ricordo più il suo sonno che riposava

come la morte nelle tenebre sue

sul suo guanciale, scavato equamente.

Mi porse essa una mano

leggera e la pose nel suo solido chiarore

sopra chiare chiome dentro una chiara tomba.

Più non so il suo sorriso.

Esso era glaciale. Come esso era un amico.

In margine ad un pioppo

era proprio il suo sangue.

È un anno.

Cede il canto d’un flauto

quando scivolava un sogno

leggero su una guancia.

Nel legno inciso

poggiava intristito il vero

che non conobbe ritorno.

Il sonno s’illanguidiva.

Qualcosa era solido al suo lato,

e a lato

mortalmente concluso

era quanto nelle valli di meglio

era sugli alberi dischiuso.

Se mi sveglio

(ora è presto già un ritorno

di uno spiraglio scavato alle sue voragini)

il sangue era presago e gelido

un profilo suo d’un tempio

scavato dalle tempie

arido nel tempo delle valli.


Se qualcosa timido risuona

Se qualcosa timido risuona e poi di vetta

in vetta conobbe anche l’umido l’albore

ultima linea vera subito già era.

Presagio mi lega sulle acque

e lento a le lontane sue voragini

o a le origini stellate.

Sulle vesti tue vennero

care sembianze di persone

vive e deste e morte poi.

Qualcosa era vero

e non sono lontano da te

quando una lontana vena

appena baciata, cara, era dall’aria

quando il vento, per sua fortuna forse,

li riveste e poi li assume.

I lineamenti percorrono dall’alto

una rigorosa piega che oggi si nega.

Umidi occhi espressero una pura vena

scomparsa e non rintracciata altrove

più con attenta cura.

Il pregiudizio di allontanarti,

di volerti male risiede proprio qui: timide

come in esso scaturivano le tue strane

note ora la tua stessa quiete.

Sapevo un veramente riverbero strano se cammino,

al fianco tuo o non più vicino o qui

sapevano questo di giorno in giorno

le allodole nel cielo e dentro un arco un cieco.

E perché grigia una pioggia di gennaio

umida non sia, non vale più quanto ho sognato invano,

non vale più una lucida scintilla

sulle ombre delle cose che vanno verso un sogno già lontano.

Apparivano funebri lidi su le tombe.

Ma tu domani quanto un piccolo ritorno

con puntuti occhi, come puntato hai

la vita su la schiuma, hai ritrovato

in te stessa la tua vita perduta al margine

dei sogni.

Nella marina attigua

era il tuo sangue e se altrove

non manca mai da te lontano

ciò di cui era priva e confusa spesso la memoria

presto essa s’imbianca in un soffio

o appare appena un soffuso pallido di rosa

o il suo rossore.

Non può mancare nulla neppure ciò:

ciò era molto simile all’amore.

Un complesso era vergine. Un tutto era d’aria.

Vaga eri ora e con te quasi varia:

eri quasi simile al dolore.


Ritorna il sogno. Non più mancare

Ritorna il sogno. Non più mancare

coi tuoi occhi bruni sulla lunga siepe

che s’ingrigia oppure imbruna.

Non mai vista

per l’altrui dolore fu essa e si seppe,

per l’alterna tua fortuna, chi di noi due

mentre su la marea scrive e muore,

più fosse simile alla morte

o a una vigilia, dove non puoi vagare.

Vergine era tanto la solita vita che ti resta.

Dolcemente era simile all’amore

la quiete dolorosa delle lunghe ciglia.

Una vita ch’era tutta intatta

ora tua non era.

Più non era questa.


Quando con impalpabili gote

Quando con impalpabili gote

entrò simile all’amore una funebre

bellezza, densa tanto ed insignificante,

era ben lieta di trattenerti

la penombra che eguagliò i tuoi begli occhi

ed ugualmente un poco penosamente

la tenera tua bocca coi mesti

suoi remoti lineamenti.

Qualcosa

tentò la fortuna d’un’aria tua lontana.

Umile le bende di nuvole rosee

erano simile al tramonto.

E perché io ti amo

parlò una mano glabra.

Tinnente

era uno scroscio che avviò per sempre.

Sul petto rappreso ed umile

soavemente denso era il tuo collo.

Ma, ecco, pago il diletto e strappo

da te chi era vivo e solido come un albero

dietro uno tuo, dietro il tuo bel corpo.

Il tuo tempo

era sul tuo freddo labbro

appena io m’interrompo.

Non vale pena di starti a fianco

– eguagliò amaramente un nastro d’argento

in un punto ombroso te una rosea sera

dolce d’inverno a fine di anno,

e il diletto che spunta era già troppo.

Non voglio più sapere di un albero di bosco,

di una schiera lieve di strade,

di chi si ricordò di te senza sapere

come vivido fosse ed avido

il dolore del ricordo d’un tuo mondo.

Se io mi pento e l’eco non era

così stanca ancora ai confini

come io m’addenso e di te penso

un po’ per storia, un po’ per malumore,

una gioia ch’era sopra un sasso

levigato dalla lievità veloce delle onde

che trascorse monotono dentro le tue ore

era in due denso livido un tuo fiotto.

Un senso era tuo:

ora era un vivido ritorno.


Se passibile l’eco

Se passibile l’eco ai confini

era invisibile segno e straniero,

dubitato da sempre, passo anch’io

dentro una lievità ombrosa, carnosa

canora rara di linee.


Perché amalgame non siano

Perché amalgame non siano più una chiostra

e non sia più una tua risposta, mi ravvolgo

nella tenebra lenta antica

che non conobbe mai il dolore.

Se l’incanto cade e al senso cede

puoi riporre ove vuoi e porgere

ignota, remota una distanza,

un’ombra serena amica alla memoria.

E sebbene

a volte l’onda cada, calda

ed ombratile già passa, ti riporta a stento

immutata più viva e vera

a te stessa come una statua immobile

stasera.


Puoi ora ai margini

Puoi ora ai margini d’un sogno che non cerco

calda avvizzire nel dolore.

Una preghiera era immobile o una guancia,

e, riportata in te già dentro a un’unghia,

una lagrima dolce non era più di questa se ti bagna

e leggermente confida te a te stessa e si confessa.


Quando non più lugubre

Quando non più lugubre era un novello suono

e tu non eri, domani più te stessa,

venne e cadde calda un’ombra

sulla stessa idea. Trasparivano pori

sopra un’unghia nella tua origene

indifesa, non più si disseminavano

nella carnagione del tuo volto.

S’incrinavano valli sulle tiepide

contrade. La trepida gota

era sul tuo collo lungo.

Una soave

attesa era in un viottolo

che non frequento nel profondo.

La voce era così povera, pallida così tristemente

come seminarono sul tuo volto il vento

(così io mi ricordo)

e gelida la neve,

e bastò un nonnulla, una gamma

di sonno sopra il bianco o la seta fine

a darti una mano, com’era la fine

d’una giornata triste e grave.

Scrivo a caratteri d’oro, indelebili

come quelli che furono dentro o attigui

ad un volubile tuo cenno.

I giorni tuoi furono densi (una mano

tua più non ritrovo) e non furono

mai meno, essi densi d’un tuo segno.


Ricordo cosa fosse simile alla ruota

Ricordo cosa fosse simile alla ruota

e sebbene non più ricca

quanto nei raggi suoi era lievemente smossa,

era già vera una giornata timida

indifesa.

Era vera l’opaca

sua umile origene.

Una festa

appariva già dentro una stella.


Se mutate ombre

Se mutate ombre non erano più di geranio

un giuoco, ora era un semplice mantello di alberi,

ora uno di foglie, ora qualcosa su cime sparse,

ora, sto a dire, era simile all’amore.

Una rosea vena ne l’illusione simile

alla fame su rose grige e rosse

era giunta alla sua fine.

La sete è estinta

ed ora muore.

Una giornata ha trafitto

tutte le stelle e le ore e un disperato grido

o uno sguardo ch’io porto con me stesso

o altrove, a cui non so più rispondere

sulle tue labbra meste ai sogni tuoi d’affetto.

Ora finché rispunti gelido un dolore

guardo immobile la tua faccia piena

così rosea e sicura, solida

nell’aspetto al tuo colore.


I traguardi frugano le ore

I traguardi fugano le ore.

Sui tegumenti dolci e sparsi

(così lieve era il calore) qualcuno fu così ardito

che guardò nell’altrui la tua faccia

e nelle sue vene calme le tue vene d’aria,

dove così dolce e vano è il suo sopore.

Se altri sopravvenne non è così ricco

più, non è così vicino come a volte per ricordarti

mi raggiunse gelida una voce.

Ad illuderti

così casto, così niveo era il tramonto.

Una mano non spinse mai due volte

nel sonno il suo ricordo.

A profusione il mare traspare.

Così diaccia monotona

è una faccia non più lieve,

non veduto è più un sepolcro

che stringe in un fiore glauco il tuo tepore.

Man mano si rinnovano tempi solerti

come un dì si rincorsero i vivi

nel loro corpo ch’era tenue.

Disillusa non era anche

nella tua la loro anima.

Tiepidi trasmigravano nella tua mano

da una celeste sostanza i fiori.

Mi piace ricordarti. È una festa

appena vivi una squallida nuda danza,

quando da una pena appena tu disfiori.

Sagome acute erano

livide di geranio

o un cristallo, perché risponde

ora il dolore dei vivi.


Non più ti domando

Non più io ti domando.

So cosa facevi

quando resuscitarono i morti.

Quel che scrivi del tuo tempo primo,

forse il migliore, non raccolse gelo,

una rupe squallida e la vena

dell’altrui dolore (così vaga in uno specchio

la tua voce o dentro una vasca; e se

d’autunno o d’inverno gelido rinasca

si squarcia tiepida una nuvola

nel cielo).

Non mi riconosco

e rimiro di notte a tarda ora

dentro di esso il mio viso stesso

stremato e povero come una fronda

dentro una favola.


Mi conviene sotto archi

Mi conviene sotto archi

di cieli attardarmi e non so come si riconosca

il velo squallido della memoria

umile che rinasca o come l’odio,

due volte, dall’onda sua migliore.


Forse non fu più che sogno

Forse non fu più che sogno

il desiderio di te.

Qualcosa di acuto

era come una follia diafana

gelata nel desiderio intenso

nel vetro ora di un mondo.


Il sole delle case ha invaso le cime

Il sole delle case ha invaso le cime

e tu solido potevi essere rotondo

e dileguare con esse.

Il desiderio

se stesso trattiene e un viso opaco

morbido e fine come dentro a uno specchio

vede lui stesso e solo lui

per cortese malessere dileguare

ai piedi di un albero povero di bosco.

Ma si sapeva ciò che si spegneva

te ritto in piedi e un passo

dietro un altro era sì lieve

e poroso come era dove un altro

era un sostegno ne la sera

già piena.

Inerte una riva era pure di sughero.

Per quanto sapessi già di te sul marciapiede

non valeva esserti accanto, vicino

era altro essere che più non si richiede.

La discordanza era troppa,

gravitava nell’intercapedine

sempre di una doppia veste

dentro una dolce sembianza

sempre per un altro verso.

La città era arcuata. Felice un tuo nonnulla

certo non era, ma, vedi, mano a mano

la vena del fiume si era abbassata

a metà sonno, a metà fumo,

il fuoco era l’incesso

nell’insuccesso del tuo doppio nulla

che più non riconosco se non solo per un poco.

Da esso partiva il suo significato

e il riposo tuo perduto.

Più nonodo

il tuo cuore.

Da la clemenza dei vivi

più non ritorni e non è più viva

l’onda o altra sembianza tua nuda.

Ferma odi una voce che sboccia

o altra sostanza densa

che avanza ferrea e ti ferma

o vaga sola già in frantumi

verso la fine di altra purchessia

giornata.

Non so chiederti altro

al tuo fianco. Odi il disco del tempo

che muta voce accanto al corpo mio,

e purché sia voce viva

che più non si riconosca

sia già fiume, odio, amore,

vena rorida di cose

dentro in un lume.


Per quanto gli screzi sian folti

Per quanto gli screzi sian folti

e siano ondulanti le cime, non tutto

appena sia fermo calmo diviene.

Pallido amuleto il frutto

le piante si risovvengono esigue

e a difendersi da varie parti

con più saggio disegno non poteva

più essere, con sete sì varia,

intenso il senso del tempo e un suo contegno.

Ma tu sapevi avviarti, così come numeri,

a le ore che furono di un giorno

distanti.

Stanchi nei riflessi

fluttuarono i giorni; ora senza essi

come numero vago furono ferme

le penne, cioè, per esse, da onda

ad onda, cadeva il riposo del tempo

che preme e divenne.

Non ti distaccare

dai segni così distribuiti, mai sazi

di essere visti o convinti di sapere

ciò che era dentro ai tuoi vizi distaccato dall’aria

e per sempre.

All’acqua tenue

timida accanto nell’aria erano vaghi alberi

appena stormenti.


Tu pure sapevi nei segni

Tu pure nei segni sapevi palese

essere o nel flutto di una voce

eri timidamente mutata nell’aria accanto

nel grembo tuo di un fuoco.

Assiduamente vivi fra i tuoi vivi

e i ciechi più non erano o non giovavano mai più.

Dissidii come in distici eleganti

canti erano levati in alto,

al vento veloce, dentro un nembo,

nel tuo grembo teneri e dormenti.


A rilento le stesse sostanze

A rilento le stesse sostanze

vedi. Non è mancanza di sole

la luce che vien meno, la calma piena, il bosco,

una gocciola, una luce, una casa,

la cara sembianza di persone morte,

com’è solido il sapore, il frutto del limone

e in altro giorno attiguo il tuo gelido sopore.

Sopra le ossa, su le medesime cose

è opaco assiduo, in un fiore,

deserto il batticuore.


Non posso muovermi

Non posso muovermi per altra distanza.

Quel che avviene non è ora triste tanto.

Non tento di difendermi, non curo

di smarrirmi. Una sagoma alata

così lieve mi conviene. Due volte furono

gocciole sole remote. La luce s’imbeve

e minacciò essa esigua le pallide gote.

Non è questo più luogo di rinarrarti

miracoloso un segreto.

M’appoggio ora alla carne ombrosa

del bosco così monotono quieto

così rinascente con teneri suoi fili d’erba

sul verde, così come ne la selce scolpita

risuonarono ne le sue note le mete.

Non si deve,

non si può ne le serate tristi d’inverno

accennare al dolore.

Sopra uno zigomo

si riaccese per conto suo vago

nelle sue sembianze il colore.

Le lagrime vane sono della sera

le chiome.


Quando remoto al dolore

Quando remoto al dolore

il tuo cenno d’addio, ecco, riemerge

anch’io mi riaccorgo e cieco ritorno in dubbio

coi vaghi occhi tuoi che annunziano

e conoscono il colore tuo di sempre.

Il sentiero colla sua ombra

non era parte più di te, delle tue lagrime.

Una linea discontinua sommessa era una vena

che te trasse. Pure una stella era sulla via distante

col passo tuo solerte in due punti

che erano deserti o non mi posso più risovvenire

di ciò che avvenne.

Causa senza pausa

o senz’ombra di mistero era il tuo desiderio

d’amore ne lo spazio azzurro, non grigio,

non più bluastro e squallido ma vero.

So qualcosa

che si riapprendeva timido al tuo labbro.

E perché ombre vaganti non erano

il vuoto, non erano più plaghe

che non occupo foglie dimesse e piene.

Violentemente s’accende in un lampo rapido

l’amore già nell’odio.

Di là tu eri

oltre il ricordo del tempo, dissuaso,

che m’invitò di attendere.

Se dolciastro

fiato d’alba ora viene o qualcos’altro

è tempo già d’amore e di fortuna.

Pure il caso contrappone un suono

e corrompe me una pura luce smossa

di una scorza varia d’albero che più non si frantuma.

Gioioso liquore nell’inattesa rincorsa

o una tazza compone entro uno scheletro

vano dei vivi e dei morti con pace

le mie ossa.

Riodi forse una compattezza che fu così gentile

come argentei furono gli aliti

che si posarono da una mano così porosa.

Mai parve così solida una sua clemenza.

Ma non posso più annunziarti

o fu per riceverti il rumore,

il mormorio tenue delle maree

rapito e smosso dalle onde

nel silenzio delle tue stesse idee.


Quando la vita fu una rapida scintilla

Quando la vita fu una rapida scintilla

così solida e piena (vieni ora a ricevermi

e ad attendermi poi) ed il riposo fu prono

da vaporoso uomo ad uomo

in ogni villa; non so che viso scuro

e senza pace ebbe una donna,

e se ora posso e debbo tacito ignorarmi.

La vita non ha vestigi. Senza dubbio

posso travestirmi colla vita stessa,

colla sorte della sua lunga legge

o sulle sue lunghe ciglia

o sulle lunghe mani o sulle dita o col suo sangue

sempre lugubre a svegliarmi.

Non hai detto che bisogna ingannarsi

(una pallida mano è nel cielo folto)

o come acqua distendersi senza un letto

e senza scopo sopra un giaciglio senza tetto.

Amo l’amarezza che venne a caso

a rapirmi, il mattino a pochi passi

di una conca, un luminoso senso

senza difetti o inganni.

Amava distinguersi

e risillabare in tempi ardui, alle radici

o in un tempo come quello stretto

che tu dici, un giovane corpo

dinnanzi ad uno specchio per adornarsi.

Si dipinge una coppia luminosa

quella ch’era sola tacita

accorta innanzi agli anni

o quella che era simile a una gioia

di uno che ascolta, a cui pure venne una goccia

simile alla febbre, di fretta, a noia.

L’ebbrezza era troppa.

Era essa residua di composti

compositi di ombre, trepide,

timide su una guancia

sole e, in silenzio tanto timide e gentili

solamente dentro cose certe, terso ad ingannare

le giunture e le mie ossa.


Non posso dissuadermi anch’io

Non posso dissuadermi anch’io

se anch’io ripenso. Un passo lugubre

sul corpo, una cometa erano

e purché la gioia non sia sempre quieta

tenuta con furia, più porosa

di una vetta d’aria tumida

che costa troppo non poteva più non essere.

Dentro una gabbia sul selciato parlo

e numero le ore del mio giorno.

Ripopolo il tempo mio con ombre

stanche e parlo da solo o mi corrompo

in un gruppo fragile e dissimulo,

perché le vene tumide dell’aria

erano una porta viscida che non più risponde

e, salvata in alto un’altra volta,

era da un’altra vetta che va più in alto

e che non varia.


Non era più una pallida rosa

Non era più una pallida rosa

del tempo quanto ne lo spazio

antico era e m’adagia.

Non era più una spina

o una posa doverosa il silenzio

che solo s’attarda.

Senza fine la gioia fu varia.

Aveva pace o era nera avara la noia.

Era mia nelle ore mai stanche, ferme

d’un tuo riposo.

Trepide membra tiepide erano nell’aria.


Sono arsi i movimenti

Sono arsi i movimenti.

Ora tardi rispondi. L’indulgenza

non è più pronta come io sono sì schivo.

O questa già quieta è l’algidità

che ti circonda. Folle un tuo sogno

è una lagrima di protesta, che, ad onda

ad onda sola ora viene e se scivola

la lucciola sui sentieri non è più gentile

certo di questa.

Un’impronta cambia

subito il remo e le sue vele.

Se la leggenda è esatta

ora è un dolce lagrimare

che più non si vede, contratta

esatta doppiamente ardua

con furia nella tempesta.

Scintillante il tuo sangue composto

di ombre era vagante. Leggera gentile

appare una pianta. Non più assiduo

è il tuo batticuore. Lentamente

ardue nell’ordine di un ardire

si profilano non vane carezze

e per una vana rincorsa

il tuo cuore è una leggera sorgiva

vaga di carezze e di nozze.

So di non essere mai stato. Ma ora ti è a lato

ciò che faceva al tuo ardire. Un furore

fu il prezzo ininterrottamente. Si udiva fuori

l’odorosità delle rose.

Le mandibole

stanco ora muove un insetto

e in sé riesumando una legge

se questa era come dentro a una favola

essa era pure una gioia strana e un diletto.


Non altra sagoma era

Non altra sagoma era di senso e cielo

che mi sorrise su questa terra

di una curva di un silenzio

ch’era felice. Un’altra giornata

o l’alba adolescente erano miti.

Con gemiti una gioia oltre un certo limite

non mi permise di trattenerti

o di tradirti. Oltre era un cielo glabro.

Vidi la fatuità lenta dell’ora

diventata sull’erba verde tenera uragano;

o una fanciulla una creatura d’aria

era che mi sospinse. Inventata

era una lieve culla sempre più lontano

e tu potevi essere erba folta o grano,

qualcosa come il frutto maturo,

un esiguo giorno d’autunno

o d’inverno che pianamente in sé ristagna.

Un solco avevi arido ed umido

sulla fronte e non era più temperie vana

quella che aveva di sé intersecato

più solido il flusso incerto delle maree

avide come io avevo sognato invano

l’arida tua pelle sul tuo poco volto umano.


Odo qualcosa con ordine

Odo qualcosa con ordine.

Lievemente la castità le rassomiglia

e si modula una voce: poteva incedere

essa simile a qualcosa che la castiga

e vedevo una morte.

Screzi erano

perpendicolarmente, un vuoto era un limite

che sfuggì rauco sopra una palpebra

e separatamente.

Se per poco odo suono

non era più indulgente la sommità delle cime

e un nastro era d’argento.

Mi pento

ma non ritorno indietro. Dissimulava

un cavo buio un vuoto all’interno. Un ricordo

riodo. Una mano sul marmo

una scheggia era di un astro. Dentro

era una stagione sonnolenta

nell’uggia sua più intensa.

Quel che cerco

non era pane sopra una piaggia,

mutato il corso veloce del fiume;

quel che non posso più dire era in un lume,

una scheggia sul parapetto.

Se per caso sapevo addentrarmi

era un ritorno, poi era un opaco

nulla dall’esterno e non per trattenerti

sapevo, stanco, così poco di te.

Sulla tenue erba, a monte, era una stella,

o una sorte laboriosa, quando infingardi

sguardi vidi, vividi, discendere.

Non guardo

più addentro se non come una madre

amorosa nel bosco, invano, per attenderti.


Qua conobbi quanto fragile era

Qua conobbi quanto fragile era

o ancora non era la voce del bosco.

Qua foglie erano o viole dischiuse.

In un paesaggio apparvero sembianze

mute non vere. Il parapetto era di là,

così inerte la foce era di un fiume.

Monotone voci

salivano come la sete rorida e casta

di semplici cose.

La gaiezza invade già i monti.

Un soffio ella vede (verde era

come un lembo lasciato alle spalle)

nelle vene delle sue promesse

la primavera che viene.

La prima ora che scocca

era lasciva e dolce nel cielo.

Errante non preme

in questo istante o già era

lasciata in disparte

la volatile sera.

Forse ricorderò come apparvero

altre dolci umili cose,

né più subentrante il limpido volo

mi desterà della pioggia severa.

Libero non più andrò nel filo glauco

della pioggia o nei suoi nembi di fuoco.

O mi salverò a tutti i costi

non più limpido sui falsi piani

dove andrai vagante di notte

sotto la pioggia già acerba,

e se vuoi essere sola con me

umida e nuda la terra ai tuoi piedi

si stende. Né cerco di più. La nebbia

sale grigia alla tempia. Dal davanzale

triste leggero il tuo sonno.


L’aria grigia esterrefatta

L’aria grigia esterrefatta

nel solo suo volo si trattiene e non so rupe

o paesaggio così prossimo alla morte

come quello di essere solo nella nudità delle sue vene,

nella densità della terra

in cui erro da sempre.

So molte cose,

ma con prova e con gioia. L’erba non mormora

più alla triste sua radice, mossa

dalla velocità aerea del sonno

che dentro se stesso già si serra.

L’aria non può più muoversi

o un uomo non è più solo.

Sempre più dentro a se stesso innanzi

a uno specchio solo informe

opaco si difende.

Un astro era di puro vetro,

un nastro era d’argento.


Scende una chiarità oscura

Scende una chiarità oscura

sola a momenti. Potevano

altri altrimenti. Dissimile era

e dolce sin qui, chiara al dolore

nei vuoti tuoi lineamenti

acqua sorgiva negli occhi tuoi limpidi e tristi

e fai in tempo a difenderti.

Non voglio più udirti.

Qualcosa naufraga. Tu forse

sapevi quanto errante fosse una pena

di tempo in tempo a qualcuno

che nell’aria colla sola speranza

già avanza.

Come la morte

acqua ferma e vana ti attende

tante volte sopra zolle umide e lisce.

Liscia ella era e tante volte

era pronta a tradirti umida

sopra un lago di sabbia.

E fai per prendere. Ma occorrono

ed accadono molte altre cose. Alla fine

tristi e vani sono e varii i sortilegi.

Alla fine di un anno

a incominciare da qui potevi dolce

essere e vagare così prossima

ad una curva parsimoniosa

com’era simile una volta la tua morte.

E sono tant’anni.

Dai fiori del campo nudo

si sugge il miele e non è testimonianza

più qui l’ultimo grido del cielo,

l’assillo veloce dell’altrui dolore.


Cadono vani sogni

Cadono vani sogni,

le sembianze nel nulla.

Non vano è il partecipare

che ti faceva accostare sin qui.

Cade anche la tua riluttanza

sui corpi inerti.

Se mi dolgo, se per voraci incanti

ed origini propendo, non era monotono

moto capriccioso del fiume, perduto

un tuo senso in ogni vero tuo momento.

Stai bene a vedere.

Se voci furono tante tardi a rapirti

non chiedere più del moto azzurro

vorticoso che si spande in un lume.

Tante parti ti attendevano

da tante parti diverse.


Quali beati lampi

Quali beati lampi, quali lineamenti erano

io più non dico; perché, giunta l’ora

e in tutti i tempi, se lontano guardi,

pianamente è felice chi s’è conteso

con te un ritorno, per caso,

per un suo lieve amore.

Io non ti indico più con quale forza

un canto sia rimasto cauto indietro

nascosto nel centro come una pace

sulla via dell’ombra con un suo carattere.

È palpito vano il cuore

o lontana la sua vena vera inesistente,

immagine scolpita d’un amore?

Io mi ricordo con gloria e, non più ricco,

non più indifeso, un senso tuo disumano

sento che si perde in un lieve coro, dove il tuo corpo

fu compiuto, quello che da un quadrante gelido

risillaba lente tutte le tue ore.

Superbamente

si accecano i momenti.

Sapevano altri guardarti intorno

quando muta tu eri, e soavemente una sorgente

o gli istanti non più ritornano.

Con pena ogni silenzio fu una luce funebre

corrosa. Porosa e calma una mano non fu sì eguale.

Lontana e lenta una fiaba a te ti riconduce.

Pure purché miti occhi ti cerchino

od accennino ed accendano qualcosa

ch’era in te, e non più ritornino

nel mesto nudo cammino i tuoi ricordi

e sui tuoi pensieri onesti e due a due, nel mondo disilluso

gli ordini che con pace erano fuori del tempo che non fu più tuo,

nel bagliore proteso verso un ultimo orizzonte,

per poco l’anima col suo orgoglio, mesta, più non cade.

Luminosa era una fiamma nella notte.

Presso l’aria grigia accanto ad un fanale

un povero bussò più volte alla tua porta.

Esemplari grigi colmi di gioia mesta

non sono né ti attendono mai più.

Io non mi ricerco colla forza

umida dell’altrui dolore, occhi ora rivedo

vuoti, quel ch’era tuo e disteso fu da sempre:

lampi sopra una buccia tua che scoccano.

Se cado a misura di una misura

di un palpito d’amore su la neve o un nome

che con ardire riodo, tu sapevi con ordine

che un cadere era nel suo folto.

L’anima

era sospesa, sempre timida e ineguale.

Sapevi propinare una materia inerte

e una ne concedi. Un fiotto era un sordo alito

nel cuore. Se siedi presso un fiore

un sopore presto soffuso ti conviene.

Soffuso era e rappreso a la tua anima mortale.

Tonda tanto spunta una luna

come un calcolo del cielo

diffusa nel mistero o come un piccolo viavai;

e, perché nulla di te si sappia, ora un battello

era, ora un cristallo di pace su una nave

sospinta sola sulla via dell’orlo

dove timida e trepida tu vai.


Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro

Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro.

Tu eri coll’anima riappresa

ad un tuo giudizio quieto e se trascorrevano

le vene sole, monotone le ore, si ruppe sempre

il tuo silenzio e tu eri, forse, in un silenzio, troppo schivo.

Questo altro anno potevano avverarsi

cose entro cui ti attardi o ciò fu già da un pezzo.

Un precipizio o una sagoma

ti rimproveravano. Parevano cose tali

da venire sempre indietro,

da avverare sempre un’ignominia

o un antico sacrifizio.

Un livore poi non era più mortale

su una rupe di gelo che non era sempre antica.

E mi attendo qualcos’altro

nell’afa della canicola stellare,

da te protetto in dolce ansia

confuso nel tuo aspetto,

col sale del tuo simile nel petto;

o da te nuovamente nuove il passo

la dolce alba, ma non riporta

nulla, tumido il tuo volto,

e già essa era di porta in porta.

E vorrei dirti di me, di te che più non sai

quale sia gelida avanti l’alba

una risposta e, prima che la giornata

in un poro socchiuso cada,

quale sia cosa che ancora umida si salva.

Potevano essere molte cose

e molto da te diverse.

Ingemmata

sopra una plaga poteva essere

una verde spiga che rigermoglia

sempre o quanto ricorda

a te solo una tua piaga.


Forse perché partecipi di un modo esatto

Forse perché partecipi di un modo esatto

di essere le cose non potevano essere diverse,

distanti da te, mi piacque la loro essenza

come la morte. Ora m’odi. La parte rinacque

gelida glaciale, un puro spazio di ozii

che m’invaghì. Un poco di te pure mi prese

ma piacque distendermi.

Molte parti di esse erano vere.

Si salvò la tua purezza e di notte

sul tardi venne ed amò la clemenza

e non invano, e dove mano a mano

lenta era l’opera del tempo,

un sacrifizio tuo era tacito che amo.

Ora vedi chi sono, chi amo. Molle

nelle tue vene senti chi tanto alto ti attese

e venne a rapirti. Ma oltre l’essere inumano,

oltre i suoi limiti, era una selva

di pure lievi sorprese. Di rimando

viene smorto già un tuo sguardo.

Hai bisogno di essere in te stesso

confuso come un ricordo che a volte

di sé si risovviene e non mi dimenticherò

mai più di te o di altri ora che ingiallisce l’ora

ed opacamente un fiore, e non puoi più attenderti

altra forza oltre quella che, entro i limiti naturali,

scorre a gocce o proviene da se stessa

o dalla cima delle rocce.

Così prossima era anche la tua fine

dentro la sfera di altre ossa

che furono e ti rapirono con forza.

Se accade il giudizio

aspetta quel che può essere.

Così la gioia si conviene a poche cose

di cui, a prova, ora hai un sentimento.

A riprova

hai varcato un limite.

Cerca

pure, se vuoi, di mantenerti.

Mi piacque così povera una cosa ora, delusa.

Era

come quando cercai di trattenerti

e dal letargo cadde una larva da una schiuma,

una bava vaporosa, amorosa di crescere

e non cercai più in altri occhi asciutti

che i pensieri di se stessa.

Se sul mare mi ancorai, chiesi ancora

vaporosi dubbi e in me non era più, dunque,

che un’anima mortale.

Una gioia bramava riesumare l’aurora

come da sempre avvenne. Triste era l’anima!

Non mi piacque di contrariare. Cresceva

in assoluta libertà, in lei, vaporoso

sangue lentamente vergine a brandelli.

Se la lievità contrista le ore

ora ritorna l’amore e non sai più

di non essere che un corpo fragile.

Interrogai poi l’uno, dopo l’altro le mie ossa.

Né mi dispiacque più di non essere

o di essere già estinto, ma più giusto.

Per me stesso si profilava oltre un certo limite

una bara che discendeva lentamente

dopo il suo corpo in una selva amara.


Sono minacciosi i giorni

Sono minacciosi i giorni

ma tu siedi ora con gioia. Ristagnano

pensieri dolci a vedersi dentro un tacito raggio.

Non ti affannare di notte.

Come si pensa a volte nel sangue

si spegne la sete più intensa e dubbiosa

che spesso scivola e cade

da una mano veloce sui sentieri.

Solo la sera imminente mi commuove.

Si traggono felici conseguenze,

aliti non quieti come dentro

furono un dì, un giro curioso,

e per caso tacito un inganno

sul cuore delle rose.

Si spingevano

a valle tante e vane, tacite le cose.


Non sono per te più di rimando

Non sono per te più di rimando.

Tu siedi sul marmo. Vedi cari lineamenti

e sono già decise le tue cose.

Se una quiete esse furono,

fu sorella oscura, avara, carnosa la morte

aerea a seguirti. Se sparsi frammenti

esse furono, la notte vaporosa

o la noia non più mia erano sempre.

Vedi,

ti attendono ancora gli intensi sensi

dolci aliti dei vivi.


Sono risospinto indietro

Sono risospinto indietro

e più non mi riconosco

in dolci frammenti

e più non ti domando

deciso, come sono, sempre pronto

rapido a seguirti;

e quando la verità scompare

e scompone sempre più se stessa

dentro i suoi principi poveri,

dai firmamenti scossa, riodo,

quel che volevi dire.

Sono lievità le stelle carnose.

Qualcuna nacque da un desiderio

intenso d’uragano.

Se partecipe vicenda

esigua era, già m’inganno o torno

a trattenere parvenza rapida dell’ale

che si ripiega sempre su se stessa

tu eri sempre più lontana

e sempre e più sempre con un alito intorno

come a te si versa sempre più da viva

un alito del bosco.


Gamme lucenti sui tuoni

Gamme lucenti sui tuoni dei boschi

erano o un tuo lieto colore, come si dice! Ma tu in lagrime

sempre fuggenti, sempre più fuggitiva, sapevi dissaporare

tanto come felice dentro era un velo di cinta

vera una donna ch’era già viva.

Acqua tiepida dentro un cristallo sapida sale.

A volte s’apriva, dentro, una sfera.

La rapidità ti sorprende.

Era sempre presaga una musica,

una virtù ridotta, una morte

già angelica, uno spazio, il colore

tiepido, una pallida guancia che ride

subito desta e in se stessa riassorta

subito muore.

Non ti sapevo sognare diversamente

di questa. Non altro, quando

di te lievemente dico, era il tuo nome.

In un silenzio felice, l’ombra luminosa

di un volto sul volto era di un altro,

una sfera sempre di ardire.

Ma perché le onde su te ritornano

e tanto vennero sempre con gioia

non so quale quiete sia la più solerte:

se un sicomoro che amava rapirti

nel cammino roseo dei venti

come un numero appena o un respiro

solo frequente.

Solo pago ora stasera.

Né chiedo di più, che un tuo debito

sia un tuo nuovo ordine o una tua preghiera

né viva ora né lieta.

Se i riverberi

sono stanchi non più assidua era una vita

nella tua sera.

Tiepida una tua risposta

è nel vento sopito o rapido.

Dentro una morte

fulminea era una tua tempesta.


Quando dai rigori chiusi

Quando dai rigori chiusi

di un ruscello – caso strano! –

è un ordine felice, sei tu che costi

o è un sogno appena libero

e rotondo sul tuo labbro

che ti sogna e ti comprende.


Intima una vita liquida

Intima una vita liquida

si riaccende. Naufragano i colori,

silenzi densi e strani quando l’infingardo

volo delle nuvole nel sole ti sorprende,

e se tu sei venuta sola da ponente

nel grembo tuo tutta t’appoggi

ed in esso è tiepido leggero il tuo più lieve sonno.

Oggi sono presso te, domani

è più penoso un tuo ritorno

così fitto nelle mani tue

ad attenderti quale è un dono tuo di sortilegi

vano verso te a difenderti.

Un originario senso

oggi si pieghi nelle tue pieghe rosse,

esse verso te protese o verso già se stesse,

quale abbandono od ala folle e densa

vergine è il silenzio, ora la pioggia.

Presso a le opache soglie

o a le origini stellate erra già il tuo volto

e dentro un suono, già il tuo, un errante volo.

Non so qual sia più errato

canto: se il volo delle nuvole disteso

o quello che è nel sorriso d’un tuo povero

nel cui mezzo sono solo anch’io.

Giunto

alle medesime cose la medesima rovina

che si fende è il suo silenzio, nel plenilunio

che veloce ti comprende.


Nella vita una piega risuona

Nella vita una piega risuona,

pioggia tinnente folle è una città

che appare invasa a metà.

Sono queste

le cose come l’arsa tua febbre

sopra aride zolle.

Un respiro glaciale d’alberi stanchi

entro una siepe, sono nella notte

gli uccelli. Dal tempo delle acque

brucano nel cuore solo se stessi

o la profonda lor quiete.

Parti diverse di essi

amarono i sortilegi.

La soavità è glauca anche oggi.

Anche oggi sono strani deserti già i fiori

l’uno mosso nell’altro.

Annotta

quell’unico viso ch’ebbe in sorte il dolore

ed amò negli stessi riflessi di esso

uno dei suoi privilegi, e dentro

la stessa morte la materia

della natura della profonda quiete.


A discreto suono

A discreto suono

errando vai e sono contrappunto

dei boschi le radici, le sagome

acute e reinvolute che un silenzio

contraddistinse da la morte.

Quel che dici

agreste succo sgorga.

Il frutto maturo

appare denso degli ulivi.

Tu per incanto

potevi essere fra quelli di cui non si dice

più che il nome.

La vita lievita nel silenzio gelido

commista ad altro e già al tuo canto.

Come uno il cui viso annotta

di cui nulla si ricorda per non più rispondere

mista alla sua stessa sponda

mezzanotte alita sopra già una fronda

e con essa va la mia vita o è vinta.

Essa è già pure pura essenza china,

chiomata sostanza di una luce

di albero che si versa

e ad una favola fievole declina.


Gemme roride sono una nascita

Gemme roride sono una nascita

nascosta sulla ghiaia. L’ora boschiva

è quale un albero fuggente.

Sono

qual sono. Tu sola mi comprendi.

Di anno in anno più la mia vita

è sola o semplicemente già furtiva;

e perché io non sono certo più di te o di me,

delle ore fuggitive o di come si comprendono

e si compongono le cose; e se da te rifuggo,

se cammino oppure muovo

una tua mano o tiepido m’appoggio

al davanzale timido del sonno, e se sono

solo fra me e te e non è più l’uggia

tiepida la pioggia a tarda ora

sulla strada non più ignorata, vedo

anche quel che era ed ora limpido si sogna.

E sono libero o troppo è ora libero di me

nella libertà ghiacciata precisa dentro le tue ore

nella vita sempre in moto e sempre eguale

verso una meta di alberi di bosco.

Di ora in ora si rinnova in me sin qui

quel che era aria in una libera vicenda

ignuda se ti tocco.


T’appoggi o tu sei simile

T’appoggi o tu sei simile a ciò che io sono.

Non è più libero senso una città natale.

Quel che si rincorre io richiamo nel tuo sole

già o è una virtù nascente.

Si difende

al limite su una ghiacciaia una meta

dei tuoi sogni e passa da una strada

su una guancia.

Spesso accertata meta

tu sei un sospiro, un respiro d’aria

così opaco e forte a volte.

Mitemente mi scopro.

Non più l’aria umida tristemente

è della sera timida nel vespero,

se leggermente suona ed io sono

di mezzo o tu sei già di troppo.

Il tuo nome

è una pioggia aerea tinnente che scava

le radici cui mi appoggio.

Appoggiato ad un pioppo

era un pozzo o la città che fu tua

che più non ti comprende.

Sono qual sono

o come un albero a ridosso e mitemente

che declina dai monti ad una sorgente

sua che fu d’aria o di polvere.

O forse io non sarò più mai.

Timida declina la stessa cortesia

che invade umido il tuo labbro.

Vedi la sera.

Di se stessa nessuna novità più concede

se nuovamente, pianamente il sole

riaccende un raggio cui nulla so più rispondere.


Quando da monotone cose

Quando da monotone cose

a un’erma cinta verde rivestita

che di rose odora, non so qual mezzo,

qual prezzo delle tue lunghe dita,

ora l’incedere o l’andare da una veglia

blu rapida del cielo a una vigilia,

era una rosea vena che ti ricorda

in due rivestita tiepida e leggera

nei colori all’altezza del suo volo, la tua sera,

qualcosa o qualcuno era presso a la tua soglia.

Se bionda eri e non più io ti domando

non so qual passo composito di ombre

era subito al tuo labbro.

Vuoto fugge

e triste un compleanno.

Sebbene le ore non siano più quelle

che furono una volta

non so qual casto canto

strappava efelidi leggere

ad una bionda gota.

Passava una piega veloce

e non aveva più rughe tonda

e tarda la tua strada.

Qualcosa nell’asfalto rassomiglia

a la quiete della lunga mano. La quiete

delle lunghe ciglia, scavata ad arco

era su una parte della parete liquida

di smalto.

Così una morte cerea

era la morte triste che ti somiglia a lato.

Raccoglieva onde una curva che agile non era,

una risposta folle, o una luna

che avevi alle tue spalle.

Se ripenso alla lunga inerzia,

tu eri di mezzo la sua lunga grazia

insazia dentro la sua pace:

gemmata tremula sul labbro

modesta in abbandono non veduta era in disparte.

L’ora del tempo non era quella

che amava più l’onda del bosco.

Sapevi quanto assidui o intensi

erano i richiami nell’onda che marcisce

e se ti allontani dai tuoi brevi passi,

simili essi erano a quella che chiamavi

l’età dell’oro.


Avaro nel tuo pensiero

Se, da diverse parti, sottintesi i segni

divengono quel che sogni e non sai

più quale curva lena sia rosea una linea

tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella

e, senza percorso, più sopra un pensiero,

ti sporgi nella medesima ora

che improvvisa si rinovella

e ti dette la nudità del sogno,

l’anima sempre uguale era senza mistero

o l’anima puoi perdere alle radici

o la semplice nudità era un assolo.

Ma perché da parti uguali erme divise

non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri

sopra i tuoi fiori nella medesima

aridità che ora scintilla essa balena

e ti accorgi di essere più solo.

Avaro nel tuo pensiero,

la stessa sostanza arida t’invischia

solo per tuo diletto.

Erme cinte di rose

appaiono già tutte le tue cose.


Roso il sangue, una verbena

Roso il sangue, una verbena

smorza il calore e come una scintilla

rapida sei tu su le tue membra

di ombra ed ossa. L’infingardo

sguardo spesso ti trattiene sopra una curva

smossa. Ora guardi il cielo. Sopra alberi

è il murmure della penombra,

cosa rosea insieme dei mattini freddi

o dell’afa della canicola che non geme sempre

e vorrei altri fiori sopra una verde aiuola.

Voluttuando, guardandoti in altri occhi

ciechi non sempre fermi è rosea una sera

o una rosa è un secco sguardo fermo sui capelli?

Mi chiudo in te stessa, priva

di vita, e non chiedo più di uno sguardo,

un brivido, una gemmante dolcezza

dentro una certezza che tu tenevi in mano.

Nei tuoi occhi di smeraldo era una carezza

o nei tuoi occhi di fuoco flutti finti.

Su tenui steli teneri

esili, dormenti ora odo in archi di baleni

l’essere e il non essere o non odo più altro essere

nelle penombre ritrovate altrove.

Non ho più altro soccorso

che questa tua strenua

volontà di vivere che si riordina

nell’opaco specchio del tuo viso,

non più vivo che si riannoda a se stesso

solo e spesso ti ricorda.

Non so quale altra mano, quale lieve

sorpresa era fuori del tuo sguardo,

quando per il dolore umano,

passo dietro passo tu eri folle

o fuori e priva di te stessa.

Ma se mi piace la volontà della morte

e il senso tuo e dietro essi il senno

che la voluttà comprende,

tu sei sempre viva e sempre sveglia

o quella sorpresa in onde di aria

nel profondo del tuo sonno.


Vaghe gioie diafane

Vaghe gioie diafane erano capricciosi i tuoi momenti.

Vivi come la tua morte e sono vaporosi,

forse sempre densi, gli inerti tuoi capelli,

che in sogno e solo in sogno

in verità ora comprendi.

Scivola la nudità

glauca dei sentieri a metà del sonno,

la novità che nessuna volontà

ricerca aerea più di quelli.

Pure la novità del tuo lungo sogno

lugubre leggero si riaccende un giorno.

Da te lungi possono accecanti raggi

sgorgare sulla tenebra dolenti

sulla terra, come furono dipinte

le care ombre di carne ed ossa

sulle orme delle ore, alla soglia

d’una vita sempre smossa.

Dei viandanti origlia

su ogni cosa tiepida un tappeto verde.

Trepido brusio lievemente mosso

dalla sommità degli alberi

una gioia ti reca che forse ti somiglia

ed ora ondeggia.

Una fronte fu pura,

pensosa una bocca. Dolcemente umile

era una quiete nella quiete d’una tua vigilia.


Non voglio ricordarmi più di te

Non voglio ricordarmi più di te,

di una scala ombrosa e non mi raccontare

più come meravigliosamente avvennero le cose.

Le cicale che si attennero alla canicola

che dilagava folle non erano più

che un’ala del tuo sole e presso te già era

una fonte sul murmure dei fiori

levigato accanto. Dietro una lastra di cristallo

od una d’alabastro una statua era la tua mano.

E perché povere ossa furono prive

di se stesse, dentro di esse una prova

di ciò ch’era vero solo nel tuo tempo.

Sulle vesti tue sbocciò una larva

e da rigo a rigo esattamente vuoto

pianamente mosso da un fremito di ali,

anche quando una quiete freme o pure si raggela,

era una virtù di crescere che ora è ricca a stento.


A parti uguali, non più divise

A parti uguali non più divise

cose acerbe e tenebre rispuntarono

come le foglie nei boschi. Sulle nostre vesti

è ormai lontano il ricordo. Io non riordino

più i miei pensieri, come riodo ai miei passi

fra i passeri cadere folta la neve.

Nella castità verde cinta rapita

ai ruscelli è un ritorno, un ritmo di un interno,

lontano un calore. Non mi risovviene

più chi del suo suono era ebbro o non posso

più essere qui o altrove o altrimenti.

Liquida amarezza calata entro un’ala

ne la ricchezza de la commozione del tempo

sciolta era dentro un’isola rara. In un silenzio

di verde disperato abbandono era calma

una quiete.

E perché verde cinta,

era anche una valle, la natura stessa dei sogni

in sé vede chi in vita glaciale vicenda

alla nube silente che più non ritorna concede.

Nella tua mano era più di una deformazione

che sé non comprende e si sgrana.

Mano a mano la vita se stessa riordina

e in se stessa sempre uguale le sue orme difende.

Povere cose non furono mai così intristite

e sì ferme come adesso ti accorgi

e già sogni.

Nella vanità nulla era simile ad una rondine

che sfuggì dall’interno a un languore.

So già la duplice

lievità: quella che più non rimorde

o quella che hai più fitta con pena

nel cuore.

Se mi piacque distendermi

nel senso della notte, cosa fatta

era con calma dentro il più vivo dolore.

Ma non ti frantumare. Pensa

a una luna, alla natura

come a tanti frammenti, e se una larva

fu una testimonianza come in brividi

nel tempo che durò tutto il tuo batticuore

savie furono le tue prime parole.

Tutto fu vano

e dissimile alle origini come una morte.

Un nuovo senso amò i sortilegi,

le vele furon grige, un albero cadde

con disordine a terra e tutto l’oceano

era un solo ricordo nel riflesso

dell’occhio vitreo del volto di un altro.

Spesso i viali si trattengono come ombre

e non fu per il tuo continuo cadere

quello che ora tutto si vede.

Diafana

o lontana era anche una tomba.

Eran grigi gli asfodeli che tenevi per mano

e qualcosa si rassomigliava a te stessa per poco,

t’invitava per giuoco a una festa

questa che ora quietamente era dentro il più lieve calore.

Dopo la mezzanotte discende un metallo.

Un mantello di foglie era quello d’un povero.

Un viottolo freddo tu non potevi in apparenza

tentare.

Non era lontano

lampo che ondeggiava.

Scivolava un suono

soavemente smosso all’orecchio.


Sebbene ombre vive

Sebbene ombre vive ferme sembrava

tu amassi, non per questo un ordine

freddo sembrava un mistero amarti sognante.

Satura di te entro te era

un’immagine fredda boschiva.

Il frutto maturo dei giorni

odi come un lento cadere di foglie

e se qualcuno fu tanto cortese

ad udirti ne l’ora dei boschi,

tacito era anche un canto più solo

che s’avvicendava a se stesso

sui monti lievemente a smarrirti.

Se qualcosa scrivo, sapeva qualcuno

già stranamente esserti schivo, certo

della triste tua sorte, una vicenda era

immobile o lieta. Man mano s’attardava.

Un venir meno era l’anima residua,

un sopore di corpi morti,

che inerte cada. Un sopore

vivo si posava vivo sui denti contorti.

Alla mano tua furono portatili

tante ombre di nebbia e di strisce.

Odi il dolore forte e triste o breve dell’uomo.

Meno breve era quello di una gioia

che lievemente a gocce frantuma le ore.


Fumigarono i giorni

Fumigarono i giorni

e tu sei strana e tanto.

Pure perché da te si ebbe un sogno

(non si strappava più dai monti

un seme) furono languidi i tramonti,

vani i sentieri che adesso tu percorri.

Tramite un tratto rossastro azzurro

o nero era pure di fiori.

O tu sei

solamente vaga, conservi l’imminente

tepore che ti trasse a piedi ignudi

dal letargo del tuo fango, o solo era oro

e seme azzurro di membra e di ossa.

Concedi

come un tuo nastro primo

il tempo che fu tuo,

che fu tutto uguale.

Ogivale aereo fumo

e sonno lanciati in alto furono

un suono scaturito da un grembo già mortale.

O mutata tu sei e, di oro

in oro, azzurro divenuto è il tuo colore.

Nel mare e tramutato un altro viso

era il tuo sembiante.


Perché molte cose si ebbero

Perché molte cose si ebbero e primo suono,

di notte, si distrasse da una riva

ora vede qualunque sia la sete la sorte che fu di angeli

nel tempo che fu tuo: s’allunga ed ora rade

blu oro azzurro cupo nel tempo

delle strade.

E, riesumando il tempo già una legge

(non è questa più l’allegoria: ardevano

già corpi morti e il fumo dondola)

non è questa la magia.

La morte

aspetta in fumo fermo sonoro

in sonno tutti.

Furono

brama i nostri pianti nei suoi peccati: non sono più essi

che fiocchi lividi di nebbia, steli esili

dormenti rapidi al tuo fianco o negli occhi tuoi

che dai nostri furono gelidi e distanti.

Gentili giorni disadorni aspetti.

Ai tuoi lineamenti i capelli erano simili

fra loro. Uno sciacquio glauco dentro

internamente odo.

La brama

assume una grazia ne la lievità di crescere

prima che dentro questa come spuma

sia imminente solo una chiara vena

o già un ricordo appena.

Similmente

all’oro non basta simile a se stesso

dentro un’azzurra schiuma

più limpida una schiera.

Gli archi

si muovono lenti o sono simili fra loro.

Dai parapetti quel che lievemente

triste si concede, ancora internamente odo

entro onde immutabili in un coro.


So di non esserti nato accanto

So di non esserti nato accanto o remoto

già ai passanti; e questo è giusto.

Sopra una salsedine che sale

in piramidi azzurrali, dentro le volte umide dei cieli,

le tue son pronte.

Non so che vita rade

ed umilmente ti chiese sul monte

quando erano chiuse le porte sulle impronte.

Un’azzurra libera città diafana ora appare.

Era forse lieta la tua morte.

Ma da questa parte verso un gregge

inclina libera la verità sognante

o lievemente cade.

Non so con qual arte

con qual rete (non so più i veli)

sia stata un limite la bellezza

tua che fu sì prorompente.

I denti aguzzi sono come la tua fame.

Una verità nascente

era di linee umida una parte.



Avaro nel tuo pensiero
Copertina
Trama
Biografia
Frontespizio
Copyright
Indice
«Avaro nel tuo pensiero»: la poesia come surrogato della felicità di Caterina Verbaro
Nota al testo di Mario Sechi
Ringraziamenti
Avaro nel tuo pensiero
Sebbene le clemenze
Sono in sogno
Se i moniti sono solidi
Se i giorni sono profughi
Decaduto ogni giorno
Non vale gioia densa o silenzio
Forse da autunnali chiome
Ti siedi fra noi
In questa sera in cui s’accendono
Sono moniti gli accenti
Lugubri magie sono le tue parole
La verità comprende
Scarno saliva un lume
Ogni minuscolo attimo
Quando mi maraviglio
Ora so. Poteva pure non essere
Forse perché volubile
Non mi piace intendere
Sento capricciosi eventi
A prova non più erano
In segni sopra le mutate cose
Perché accadrà crudelmente
Quando i monti
Tu potevi non chiamarmi
Forse l’annuncio vano delle parole
Non so quali siano
Un punto, una sagoma
Non mai il mio riso
È permanentemente vero
Come acqua cedua
Perché da tenui parti
Se savio mi compongo
La vita chiomata, al largo, dei sogni
Son distici a catena e l’innegabile clemenza
Se accanto al declinare
Non mi ricorderò mai più di te
Gracili corolle erano
Se qualcosa timido risuona
Ritorna il sogno. Non più mancare
Quando con impalpabili gote
Se passibile l’eco
Perché amalgame non siano
Puoi ora ai margini
Quando non più lugubre
Ricordo cosa fosse simile alla ruota
Se mutate ombre
I traguardi frugano le ore
Non più ti domando
Mi conviene sotto archi
Forse non fu più che sogno
Il sole delle case ha invaso le cime
Per quanto gli screzi sian folti
Tu pure sapevi nei segni
A rilento le stesse sostanze
Non posso muovermi
Quando remoto al dolore
Quando la vita fu una rapida scintilla
Non posso dissuadermi anch’io
Non era più una pallida rosa
Sono arsi i movimenti
Non altra sagoma era
Odo qualcosa con ordine
Qua conobbi quanto fragile era
L’aria grigia esterrefatta
Scende una chiarità oscura
Cadono vani sogni
Quali beati lampi
Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro
Forse perché partecipi di un modo esatto
Sono minacciosi i giorni
Non sono per te più di rimando
Sono risospinto indietro
Gamme lucenti sui tuoni
Quando dai rigori chiusi
Intima una vita liquida
Nella vita una piega risuona
A discreto suono
Gemme roride sono una nascita
T’appoggi o tu sei simile
Quando da monotone cose
Avaro nel tuo pensiero
Roso il sangue, una verbena
Vaghe gioie diafane
Non voglio ricordarmi più di te
A parti uguali, non più divise
Sebbene ombre vive
Fumigarono i giorni
Perché molte cose si ebbero
So di non esserti nato accanto
So che non occorre tempo
A tardo strazio la notte era
Sopra mormorii quadrati
Lontano sui misteri guardi
I sogni non sono proclivi
Rigidamente inclina
La selva conosce corrosa se stessa
A mutati sensi i venti gridano
La pioggia sorridente
Naufraghe e lente le ore discorrono
Alla fine i tuoi pensieri vagarono soli
Quando densa una pace era già una schiera
Perché di anno in anno
Ancora sogni. L’anima vagante
Se di mattino ti alzi
Fuggevoli gridi tocchi
Non volubili onde
Sapevi addormentarti
Sui monti sapevi vagare
Io sapevo esserti diverso
Il tempo della inumidita distanza
Quando qualcuno si riconsola
Pure perché il sapere sia più giusto
La fonte era umida degli occhi
Per quanto egli amò con gloria
Erano rose d’inverno
Forse di te non apprenderò
So, non valeva altra gioia
Quando da la solitudine
Se preso dalla sagoma
Nuvole sono già strano enigma
Non valgono mutevoli onde
Non altra lagrima amata
Se disperatamente l’anima
Non altra aria ebbe senso
In una triste ora
In erranti canti un usignolo
Quando ne l’ineluttabile chiarezza
Se rievoco ricordo cos’era
Non era più aereo, fuggente
Se di vetro il tuo viso
A somma nudità dell’essere
Naufraghi erano i gridi
Perché un povero cuore
Notizia su Lorenzo Calogero