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Ma perché da parti uguali erme divise
non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri
sopra i tuoi fiori nella medesima
aridità che ora scintilla essa balena
e ti accorgi di essere più solo.
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.
Erme cinte di rose
appaiono già tutte le tue cose.
Nato e a lungo vissuto appartato a Melicuccà (Reggio Calabria), Lorenzo Calogero (1910-1961) studiò Ingegneria e poi Medicina a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica fino al 1955, dedicandosi intanto alla filosofia e alla poesia. Tentò di stabilire contatti con poeti, riviste e editori importanti ma senza successo, mentre la scrittura prendeva sempre più la forma di un destino e di una vocazione assoluti. È morto in circostanze mai definitivamente chiarite, nella sua casa di Melicuccà, nel marzo 1961. Dopo la morte, nel 1962, scoppiò un vero e proprio caso letterario e Calogero venne salutato come un nuovo Rimbaud. Poi, improvvisamente, di nuovo l’oblio. La storia letteraria ha lasciato troppo a lungo nell’ombra una delle voci più alte del Novecento poetico italiano.
Poesia / 54
A cura di
Mario Sechi e Caterina Verbaro
Il progetto editoriale per la pubblicazione dell’opera
Avaro nel tuo pensiero di Lorenzo Calogero
viene realizzato grazie al contributo di UBI Banca Carime,
e attraverso la cooperazione scientifica fra l’Università della Calabria,
che custodisce l’Archivio del poeta,
e l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari.
© 2014 Donzelli editore, Roma
Via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it
E-MAIL editore@donzelli.it
Progetto grafico di Carlo Fumian
ISBN 978-88-6843-344-4
«Avaro nel tuo pensiero»: la poesia come surrogato della felicità
di Caterina Verbaro
Nota al testo
di Mario Sechi
Ringraziamenti
Avaro nel tuo pensiero
Sebbene le clemenze
Sono in sogno
Se i moniti sono solidi
Se i giorni sono profughi
Decaduto ogni giorno
Non vale gioia densa o silenzio
Forse da autunnali chiome
Ti siedi fra noi
In questa sera in cui s’accendono
Sono moniti gli accenti
Lugubri magie sono le tue parole
La verità comprende
Scarno saliva un lume
Ogni minuscolo attimo
Quando mi maraviglio
Ora so. Poteva pure non essere
Forse perché volubile
Non mi piace intendere
Sento capricciosi eventi
A prova non più erano
In segni sopra le mutate cose
Perché accadrà crudelmente
Quando i monti
Tu potevi non chiamarmi
Forse l’annuncio vano delle parole
Non so quali siano
Un punto, una sagoma
Non mai il mio riso
È permanentemente vero
Come acqua cedua
Perché da tenui parti
Se savio mi compongo
La vita chiomata, al largo, dei sogni
Son distici a catena e l’innegabile clemenza
Se accanto al declinare
Non mi ricorderò mai più di te
Gracili corolle erano
Se qualcosa timido risuona
Ritorna il sogno. Non più mancare
Quando con impalpabili gote
Se passibile l’eco
Perché amalgame non siano
Puoi ora ai margini
Quando non più lugubre
Ricordo cosa fosse simile alla ruota
Se mutate ombre
I traguardi frugano le ore
Non più ti domando
Mi conviene sotto archi
Forse non fu più che sogno
Il sole delle case ha invaso le cime
Per quanto gli screzi sian folti
Tu pure sapevi nei segni
A rilento le stesse sostanze
Non posso muovermi
Quando remoto al dolore
Quando la vita fu una rapida scintilla
Non posso dissuadermi anch’io
Non era più una pallida rosa
Sono arsi i movimenti
Non altra sagoma era
Odo qualcosa con ordine
Qua conobbi quanto fragile era
L’aria grigia esterrefatta
Scende una chiarità oscura
Cadono vani sogni
Quali beati lampi
Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro
Forse perché partecipi di un modo esatto
Sono minacciosi i giorni
Non sono per te più di rimando
Sono risospinto indietro
Gamme lucenti sui tuoni
Quando dai rigori chiusi
Intima una vita liquida
Nella vita una piega risuona
A discreto suono
Gemme roride sono una nascita
T’appoggi o tu sei simile
Quando da monotone cose
Avaro nel tuo pensiero
Roso il sangue, una verbena
Vaghe gioie diafane
Non voglio ricordarmi più di te
A parti uguali, non più divise
Sebbene ombre vive
Fumigarono i giorni
Perché molte cose si ebbero
So di non esserti nato accanto
So che non occorre tempo
A tardo strazio la notte era
Sopra mormorii quadrati
Lontano sui misteri guardi
I sogni non sono proclivi
Rigidamente inclina
La selva conosce corrosa se stessa
A mutati sensi i venti gridano
La pioggia sorridente
Naufraghe e lente le ore discorrono
Alla fine i tuoi pensieri vagarono soli
Quando densa una pace era già una schiera
Perché di anno in anno
Ancora sogni. L’anima vagante
Se di mattino ti alzi
Fuggevoli gridi tocchi
Non volubili onde
Sapevi addormentarti
Sui monti sapevi vagare
Io sapevo esserti diverso
Il tempo della inumidita distanza
Quando qualcuno si riconsola
Pure perché il sapere sia più giusto
La fonte era umida degli occhi
Per quanto egli amò con gloria
Erano rose d’inverno
Forse di te non apprenderò
So, non valeva altra gioia
Quando da la solitudine
Se preso dalla sagoma
Nuvole sono già strano enigma
Non valgono mutevoli onde
Non altra lagrima amata
Se disperatamente l’anima
Non altra aria ebbe senso
In una triste ora
In erranti canti un usignolo
Quando ne l’ineluttabile chiarezza
Se rievoco ricordo cos’era
Non era più aereo, fuggente
Se di vetro il tuo viso
A somma nudità dell’essere
Naufraghi erano i gridi
Perché un povero cuore
Notizia su Lorenzo Calogero
di Caterina Verbaro
Beato chi ha trovato per tempo il suo centro di vita e che veramente si trova al centro di essa! Non proverà un desiderio spasmodico di poesia, di questo surrogato della felicità, ma quanto labile.
Lorenzo Calogero, Quaderni inediti, 1936
In una delle tante riflessioni sulla poesia annotate nei suoi quadernetti neri da scolaro, Calogero diagnostica lucidamente la difficoltà di condividere il proprio universo poetico, così dolorosamente segnato dall’intransitività:
L’impossibilità di scrivere poesia proviene principalmente dall’accorgersi di non possedere dei simboli che siano validi universalmente, simboli cioè che possano essere assimilabili in tutto agli umani segni attraverso cui si compie e si trasmette la comunicazione1.
La mancanza e la ricerca di tale condivisione simbolica universale segna come uno stigma i versi e la vita di Lorenzo Calogero: la sua vicenda biografica e poetica, indissolubilmente intrecciate, sono ugualmente connotate dall’isolamento, dal soliloquio, dal mancato ascolto e riconoscimento. Privata di un centro che ne sostanzi il fondamento stabile, l’esistenza di Calogero cerca incessantemente in una poesia altrettanto defocalizzata il proprio «surrogato della felicità»2.
Nato nel 1910 nel piccolo paese calabrese di Melicuccà, dove nel 1961 morirà di abbandono, probabilmente suicida, Calogero spende la sua intera esistenza in una pratica di scrittura fluviale e ininterrotta, di cui fa fede la grande quantità di versi solo in parte raccolti e pubblicati tra gli anni trenta e gli anni sessanta. Oltre alle prime raccolte giovanili, poi riviste nel 1956 in Parole del tempo, Calogero pubblica negli anni cinquanta, sempre presso la piccola sigla editoriale Maia di Siena, nel più totale disconoscimento critico, le sue opere più importanti, Ma questo… (1955) e Come in dittici (1956). La sua consacrazione postuma si deve alla comparsa nel 1962 del primo volume delle Opere poetiche, pubblicato con grande risonanza subito dopo la sua morte dalla Lerici, e poi seguito da un secondo volume nel 1966. Quello che negli anni sessanta fu definito il «caso Calogero», puntò mediaticamente a costruire un profilo mitologico quanto patetico del personaggio, sottolineando con enfasi la disperata vicenda esistenziale del nuovo poeta maudit, enfatizzando con cinico compatimento quegli elementi biografici – la malattia psichica, i frequenti ricoveri in manicomio, il disagio e l’emarginazione sociale e letteraria, l’incapacità di vivere – in grado di attirare un’attenzione distratta e puramente emotiva sulla sua vicenda. Ma il merito di questa edizione Lerici fu comunque di rivelare l’esistenza di un arcipelago poetico ancora inesplorato. Accanto alle raccolte già edite, i volumi curati da Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi progettano e in parte realizzano la pubblicazione di alcuni testi inediti risalenti agli ultimi anni di vita dell’autore. Sogno più non ricordo compare così nel secondo volume dell’edizione, mentre il primo ospita una scelta di frammenti tratti dalle poesie scritte nella casa di cura di Catanzaro tra il 1959 e il 1960, a cui i curatori assegnano il titolo Quaderni di Villa Nuccia3. Il progetto editoriale della Lerici doveva concludersi con l’uscita di lì a poco di un terzo volume delle Opere poetiche, comprendente Parole del tempo e l’inedito Avaro nel tuo pensiero. Ma nel frattempo, scemate la tensione e l’attesa prodotte dal «caso Calogero», la crisi e poi il riassetto editoriale della Lerici milanese lasciano inconcluso il progetto e inedito il poemetto del 1955. Molti anni più tardi, tra il 1979 e il 1983, sarà Amelia Rosselli a cercare una nuova collocazione editoriale per Avaro nel tuo pensiero, di cui pubblica intanto alcune poesie sulla rivista milanese «Tabula» e a cui dedica uno studio di grande acume critico4. Ma anche questo progetto di pubblicazione, perseguito dalla Rosselli a lungo e con competente passione empatica verso le sorti calogeriane, è destinato a fallire, e il poemetto del ’55 resterà inedito.
Dopo molti anni e molte vicissitudini, si tratta dunque ora, con questa prima edizione integrale di Avaro nel tuo pensiero che siamo lieti di presentare, di riannodare il filo interrotto tra la poesia di Calogero e i suoi lettori, con l’augurio di riaprire così uno spazio di ricezione critica a un’esperienza poetica tra le più audaci e affascinanti del Novecento italiano, che stenta ancora ad affermarsi all’interno di un canone poetico costretto tra le due dominanti lirico-ermetica e prosastico-comunicativa. L’acquisizione nel 2009 del Fondo Calogero presso l’Università della Calabria, che ha reso accessibili a tutti gli studiosi i manoscritti del poeta, ha costituito la condizione essenziale per approntare un testo filologicamente accurato, così come già accaduto per la riedizione di Parole del tempo, curata da Mario Sechi per Donzelli nel 20105.
Avaro nel tuo pensiero è esemplare della fase più matura e propria della poesia calogeriana: scritto negli anni di più intensa produzione poetica, in cui Calogero si allontana da certe movenze stilistiche tardoermetiche che caratterizzavano la poesia degli anni trenta per approdare a un sistema del tutto personale e irriducibile a «scuole» o «gruppi» letterari, la raccolta costituisce un tassello essenziale di questa vicenda poetica. Gli anni cinquanta sono quelli in cui Calogero dimora in maniera totalizzante nel proprio universo poetico, sacrificando la propria stessa esistenza al demone della poesia, che insieme controlla e alimenta una sofferenza psichica sempre più pressante. Dopo aver esercitato per alcuni anni la sua professione di medico in Calabria, dal 1954 al 1956 Calogero è medico condotto a Campiglia d’Orcia, in provincia di Siena, dove la solitudine e lo spaesamento di una mancata integrazione rafforzano la chiusura nell’oltremondo fantastico della poesia e della nevrosi. Buona parte delle opere calogeriane si inscrive nella cornice di questo tempo di «esilio» toscano, in cui Calogero si dedica alla poesia molto più che alla sua professione di medico, come dimostra l’allontanamento dalla sua sede lavorativa, all’inizio del 1956, perché «la popolazione non gli ha dimostrato fiducia tanto che nella quasi totalità si astiene dal ricorrere alle sue prestazioni»6. La pubblicazione di Ma questo…, nel 1955, gli è intanto valsa l’attenzione di Leonardo Sinisgalli che, colpito dai «nessi incredibili» di questo «congegno espressivo un po’ dissueto», di questo «flusso inesauribile di parole», scriverà la Prefazione alla successiva raccolta calogeriana, Come in dittici, nel 1956, paragonando questi versi al linguaggio della pittura informale e coniando la fortunata formula di poesia come «arabesco»7. Alcune lettere del ricchissimo epistolario calogeriano, anch’esso in massima parte inedito e certamente meritevole di attenzione, testimoniano come il 1955 e il 1956 siano davvero anni cruciali di scrittura, di pubblicazioni destinate a una scarsissima fortuna, di contatti tentati e spesso falliti con editori e critici, ma anche di profonda inquietudine e disadattamento8.
In questa temperie di creatività febbrile si inserisce la stesura di Avaro nel tuo pensiero, 133 poesie composte tra il 16 e il 27 ottobre 1955, ovvero un mese dopo l’uscita di Ma questo… e pochi mesi prima dell’uscita di Parole del tempo e della composizione di Come in dittici. Sottolineo volutamente l’inusitata concentrazione di scrittura di questo periodo perché è proprio a partire dalla stesura di Avaro – non a caso scritto in uno spazio di undici giorni – che la poesia diventa per Calogero un abito mentale ossessivo, una pratica che accompagna e scompagina una quotidianità stravolta, assumendo una valenza ritualizzata e una modalità di attuazione diaristica che è stata efficacemente definita da «affrescatore»9. Questa sovrapposizione tra vita e poesia, se da un punto di vista biografico rivela tratti di compulsità nevrotica, da un punto di vista espressivo definisce un preciso sistema compositivo fondato sull’iterazione di topoi e motivi ritornanti, sulla loro organizzazione modulare infinitamente scomponibile e ricomponibile, sulla continuità inconclusa che lega i singoli testi e le stesse raccolte in una caratteristica indistinguibilità. La poesia si fa discorso infinito, che tenta attraverso incessanti variazioni e approssimazioni l’utopia di una parola definitiva, sempre sfocata rispetto a quella che Calogero percepisce come la verità oscura e inaccessibile della vita10.
Se è vero che la poesia calogeriana è oggetto tanto affascinante quanto criticamente arduo, è però anche vero che le lacune interpretative su questo universo poetico sono da addebitarsi anche alla parzialità della nostra conoscenza dell’opera. La pubblicazione di Avaro nel tuo pensiero è perciò una tessera estremamente significativa, non soltanto perché permette ai lettori di conoscere il Calogero della maturità, ma anche perché potrà consentire di rivedere alcuni pregiudizi della critica, ad esempio quello di una poesia sempre uguale a se stessa e priva di uno sviluppo diacronico. Il testimone unico di Avaro, conservato presso l’Archilet e modulato in una continuità di testi senza eccessivi ripensamenti, correzioni, varianti, ci permette di avvalorare l’ipotesi di una precisa collocazione cronologica e semantica di quest’opera in posizione di cerniera tra Ma questo… e Come in dittici, le due raccolte di cui riprende e varia i topoi più ricorrenti e le mitologie di fondo. Sebbene all’interno di un sistema espressivo che privilegia la continuità piuttosto che le fratture, possiamo affermare che Avaro costituisce uno scarto rispetto a quella fiducia espansiva nella poesia che caratterizza Ma questo…, e che si realizza come incondizionato incanto del linguaggio e dell’universo fantasmatico da essa postulato.
A partire da Avaro, l’assolutezza di questa «città fantastica»11 comincia a essere incrinata da dubbi, rinunce e reticenze. Ne è prova lo specifico trattamento del più tipico agente espressivo calogeriano, quel «tu» fantasmatico a cui sempre questa poesia si rivolge, che rappresenta al contempo una sublimata presenza amorosa e la poesia stessa come oltremondo onirico, quell’«altrove» che l’io calogeriano sceglie come propria dimora, dotato di una propria paradossale coerenza semantica12. Se in Ma questo… la personificazione femminile del «tu» è ancora segnata da derive estatiche e da compiaciute fantasmagorie oniriche, a partire da Avaro si inscena un conflitto tra questa figura fantasmatica e un io che tenta di differenziarsene. Bisogna infatti tener presente che nella poesia calogeriana l’io poetico tende sempre a con-fondersi con l’altro, in una fluttuazione cognitiva del soggetto, che è insieme un fenomeno retorico e psichico. Proprio con Avaro nel tuo pensiero l’identità indecisa del soggetto davanti alla forza attrattiva del sogno e dell’altrove inizia a precisarsi e a delimitarsi, per mezzo di quel conflitto col «tu» e con la sua dolorosa evanescenza che caratterizza il poemetto e la sua specifica dimensione agonistica. In tal modo si avvia quel processo di autoindividuazione che costituisce a mio avviso una delle più intriganti tracce di lettura della raccolta del ’55. Attraverso le schermaglie pronominali, le resistenze e le desistenze, Avaro nel tuo pensiero mette in discussione uno dei topoi più connotativi del sistema semantico calogeriano, quello dello specchio e della specularità universale, tanto che in Come in dittici lo specchio subirà una torsione nella figura che preserva e differenzia le due identità dell’io e del tu, il «dittico» appunto13.
In Avaro il «tu» a cui il poeta si rivolge comincia a essere circonfuso da dubbi, distanze, distinguo: «Volli difendermi dal tuo cuore inerte»; «Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro»; «Come acqua cedua/ mi riattempo nel tuo bosco,/ ma non so nulla più di te»; «né voglio/ sapere mai di più né fidarmi/ a distanza più di te»; «Io sapevo esserti diverso e ben altro»14. Il «non più», sintagma della desistenza e della perdita, percorre il testo come un refrain musicale, un basso che segna la fine di una confortante illusione simbiotica e panteistica, in cui l’io si percepiva identico alla propria stessa poesia e al fantasma femminile che la sostanzia. Il canovaccio insistito del testo prevede ad esempio il tentativo di differenziarsi dalla tipica incorporeità del «tu» («rapida sei tu su le tue membra/ di ombra ed ossa», 122; «Una pigra/ grigia favola era appena il tuo volto», 163), e di accedere così a una nuova percezione di sé:
Io stesso corroso
dalla vetta alta dei monti non so riconoscere
chi non ha più corpo. (24)
Dentro una gabbia sul selciato parlo
e numero le ore del mio giorno.
Ripopolo il tempo mio con ombre
stanche e parlo da solo o mi corrompo
in un gruppo fragile e dissimulo. (86)
All’interno di una poesia in cui tutto è fondato sulla somiglianza universale tra la parte e il tutto e sulla parificazione di ogni elemento, in cui vita e morte, vero e finto, realtà e sogno, condividono un medesimo spazio di esitazione e di compresenza, il dato più significativo di questa raccolta sembra essere l’incessante tentativo di auto-riconoscimento dell’io come altro, separato dal fluttuante universo onirico della propria stessa poesia. Fin dal titolo che allude ai due attanti di un dialogo impossibile – l’io avaro nel tuo pensiero –, tutto il testo è intessuto in un fitto reticolo pronominale che demarca i due personaggi, ma che nello stesso tempo li sovrappone e li confonde. L’io e il tu si scambiano parti e ruoli, l’io si nomina in prima, in seconda o in terza persona, si confonde e si differenzia, si perde nel proprio stesso balbettio «di uno che si salva/ o che ti chiama» (154) e poi improvvisamente riemerge in lampanti autoritratti:
Per quanto egli amò con gloria
era una pallida titubanza
che si narrò ai margini delle rocce. (173)
La dolorosa rinuncia al sogno panteistico, l’incessante precarietà, lo stato di pericolo, la continua minaccia di smarrimento, segnano i connotati di un io che percepisce e descrive la propria labilità, tanto da definirsi insistentemente nel testo con le sigle di «povero» e di «avaro». Si tratta di un io le cui radici sono minacciate da un’instabilità psichica che la poesia rielabora e nomina, come in un meticoloso diario della percezione, sublimando lo strazio in rapimento:
Il tuo nome
è una pioggia aerea tinnente che scava
le radici cui mi appoggio. (115)
[…]
ecco perché rimiro, povero,
anch’io così poco con gloria
alberi stanchi e i segni
dell’altrui dolore. (7)
Nella Nota del 1956 a Come in dittici, Sinisgalli individuava nella poesia di Calogero una duplicità rinvenibile anche in Avaro nel tuo pensiero: «Egli descrive un sogno così minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un’altra vita, più resistente alla morte»15. Non si tratta solo di quel tipico geometrismo astratto, che anche qui, come in tutta l’opera calogeriana, associa precisione e impalpabilità della forma («Sopra mormorii quadrati,/ di onda in onda, sopra una vetta antica/ perduta, di gennaio, i tuoi sogni/ sono oggi esigui», 137; «Accade/ un ghirigoro spesso/ di cui non so l’immagine e la fine/ che rade l’aria dentro una luce smossa/ e cade dentro», 5). In Avaro nel tuo pensiero, attraverso l’alternarsi incessante di rispecchiamento e conflittualità tra io e tu, questa doppia tensione calogeriana tra arabesco e forma si traduce in una complessiva compresenza tra smarrimento e misura, ambiguamento e individuazione, fluttuazione e perimetrazione del caos16.
Questa doppia tensione testuale riguarda la stessa declinazione espressiva della raccolta, d’altronde tipica del linguaggio poetico calogeriano: da una parte è facile riconoscere una dizione continuamente decentrata e ipnotica, che tenta vie di significazione altre da quella logico-argomentativa, che insiste sull’analogismo fonico e che adotta a proprio modello la sintassi sincronica dell’inconscio e del sogno. A tale valenza iterativa del testo si possono far risalire alcuni caratteri propri della raccolta che funzionano talvolta come inceppamenti espressivi: ad esempio quel formulario standardizzato (l’«altrui dolore», la «mano liquefatta», la «sagoma alata») che, come notava Amelia Rosselli, è qui ancora più massiccio ed enigmatico che non altrove, o l’uso insistito del verbo essere, specie nella sua declinazione dell’imperfetto narrativo «era», che defocalizza l’espressione in un’infinita parafrasi e in una fitta catena accumulativa renitente alla tessitura sintattica («Pervinche trovate a caso/ erano in lievi selve. Forse non più se ombre/ erano esatte», 13).
E tuttavia, proprio in Avaro nel tuo pensiero si coglie più che altrove la tensione dissonante del conflitto con il proprio stesso linguaggio defocalizzato e irresoluto. In forza della necessità di nominare un io segnato dalla «povertà», si registrano improvvisi scarti da quelle molteplici variazioni che intessono il discorso calogeriano come un infinito balbettio, delineando passaggi di assoluta limpidezza in cui emerge non solo un io cosciente della propria alterità, ma anche lo stesso senso del discorso:
Non mi ricordo più di te preso dall’interno
e un nome non riodo più
che ripido discese a chi fu sì povero
e la sua povertà era tenera
e languente. (194)
Vedi,
ti attendono ancora gli intensi sensi
dolci aliti dei vivi. (106)
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto. (119)
Povero, vivo, avaro: in questa catena aggettivale – di cui non sfuggirà la non casuale concatenazione fonica – delle sigle più ricorrenti del testo, si condensa il ritratto dell’io che emerge dalla raccolta, connotato dalla cifra della solitudine, dell’abbandono, dell’intransitività. «Avaro» e «povero» sono infatti non solo cifre dell’impotenza, ma anche categorie semanticamente speculari, che rimandano alla mancata relazione di scambio tra dare e avere (avaro è chi non dà, povero chi non riceve), e dunque all’ascolto negato, al destino di soliloquio che il poeta delinea o prefigura nel suo arabesco verbale: «Presso l’aria grigia accanto ad un fanale/ un povero bussò più volte alla tua porta» (100). Attraverso la trama pronominale e la dolente relazione con l’altro negato, si coglie in Avaro una nuova attenzione alla sostanza emotiva del soggetto, che si realizza nel testo come interrogazione incessante sulla soglia che separa, ma che più spesso unisce, vita e morte, e sul proprio stesso sempre dubitato essere «vivo» («Un sopore/ vivo si posava vivo sui denti contorti», 129). Lo spazio sincronico e panteistico della poesia si offre a Calogero come luogo in cui vita e morte condividono un medesimo orizzonte e si sostanziano in un’unica percezione di sé, scisso, duplice, perennemente ipotetico e dislocato. Perciò Avaro nel tuo pensiero è una tappa essenziale di questo «lugubre assolo»17 in cui l’io indagandosi dubita di sé e dell’altro e misura la propria irresoluta presenza tra vita e morte:
Non mi riconosco
e rimiro di notte a tarda ora
dentro di esso il mio viso stesso
stremato e povero come una fronda
dentro una favola. (71)
1 Fascicolo conservato presso il Fondo Calogero dell’Archivio autori contemporanei (Archilet) dell’Università della Calabria, catalogato con la segnatura AC/001.007. L’annotazione è datata 7 febbraio 1959.
2 La citazione è tratta dai quaderni inediti del 1936, riportata in A. Piromalli, I primordi della poesia di Lorenzo Calogero, in Lorenzo Calogero poeta, a cura di A. Piromalli, T. Scappaticci, C. Chiodo e P. Martino, Atti della giornata di studi, Melicuccà, 13 aprile 2002, Qualecultura, Vibo Valentia 2004, p. 33.
3 Cfr. L. Calogero, Opere poetiche, 2 voll., a cura di R. Lerici e G. Tedeschi, Prefazione di G. Tedeschi, Lerici, Milano 1962-66. Per un confronto tra questa edizione e i testimoni conservati presso l’Archilet, rimando a C. Verbaro, Dal diario al frammento. I manoscritti di Villa Nuccia, in I margini del sogno. La poesia di Lorenzo Calogero, Ets, Pisa 2011, pp. 147-65.
4 Per un’ampia ricostruzione del rapporto Rosselli-Calogero, si veda Ead., «Al bivio di tutte le sognanze»: Amelia Rosselli e Lorenzo Calogero, in I margini del sogno cit., pp. 103-24. Si veda inoltre L. Calogero, Da «Avaro nel tuo pensiero», in «Tabula», 1980, 3-4, pp. 21-37, e A. Rosselli, Un’opera inedita di Calogero e la sua corrispondenza letteraria, 1983, ora in Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici, a cura di F. Caputo, Interlinea, Novara 2004, pp. 109-23.
5 L. Calogero, Parole del tempo, a cura di M. Sechi, Introduzione di V. Teti, Donzelli, Roma 2010.
6 Si cita dalla delibera del Comune di Campiglia d’Orcia, riportata in G. Tedeschi, Lorenzo Calogero, Parallelo 38, Reggio Calabria 1996, p. 68.
7 Le citazioni di Sinisgalli sono tratte da diversi interventi: «Corriere d’informazione», 24 febbraio 1956; «Fiera letteraria», 3 marzo 1957; Nota a L. Calogero, Come in dittici, Maia, Siena 1956, p. 7.
8 «Ti avevo inviato due lettere […]. Con esse credevo di averti detto più o meno il mio pensiero […], che mi sento male, che non guadagno un quattrino, che non trovo alcuna possibilità migliore di quella che avrei trovato costà per pubblicare i miei versi, mi domando perché insisto a rimanere e non rinunzio definitivamente al posto […]. Se non fosse la pigrizia che mi impedisce o almeno mi ostacola a far le valigie, sarei a quest’ora sul treno, mentre è probabile che dovrò essere preso, non dico di forza, ma dalla energia altrui per venire se verrò. E poi venendo costà che cosa troverei?» (L. Calogero, Lettera alla madre del 19 novembre 1955, riportata in Tedeschi, Lorenzo Calogero cit., pp. 66-7). Per una prima ricostruzione di alcuni rapporti epistolari calogeriani, si veda C. Reale, Lorenzo Calogero e i suoi editori nelle carte dell’Archivio, in L’ombra assidua della poesia. Lorenzo Calogero 1910-2010, a cura di V. Teti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 123-40.
9 D. Piccini, Lorenzo Calogero. Una celeste titubanza, in «Poesia», XXI, giugno 2008, 228, p. 4. Sulla modalità ritualistica della scrittura, si veda F. Librandi, «Non sono riuscito a vivere». La dimensione rituale nella scrittura di Lorenzo Calogero, in L’ombra assidua della poesia cit., pp. 179-87.
10 Tra le sedi in cui più lucidamente Calogero esplicita la propria poetica, si ricorda la Premessa a Parole del tempo, scritta nel 1956: «so che esiste un metodo ed un sistema espressivo non conosciuto affatto prima che le cose si esprimano e che, realizzandosi, rappresenta il modo attraverso cui si giunge ad una, sia pur, limitata verità […]; esistendo una bella differenza tra vita e verità non del tutto incolmabile […] uguale approssimazione, almeno, esiste fra espressività di qualsiasi genere e la verità più caratteristica dell’uomo e della vita. [Il poeta] tenta di dare una ragione alla vita tramite la verità e ciò che la precede, cioè l’espressività» (L. Calogero, Premessa a Parole del tempo cit., 1956, pp. 5-8).
11 Si tratta del celebre sintagma che designa per Calogero il proprio universo poetico: «il titolo che avevo pensato per un mio libro di poesie e che, dentro i miei limiti e le mie capacità poetiche, avrebbe dovuto essere quello “Città fantastica” intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa» (L. Calogero, lettera a Vittorio Sereni del 25 ottobre 1960, riportata in «La Provincia di Catanzaro», Speciale Calogero, La breve vita e la morte di Lorenzo Calogero, II, luglio-agosto 1983, 4, p. 99).
12 Per un’individuazione dei topoi che caratterizzano la «città fantastica» – l’oscurità, l’altitudine, la leggerezza, il movimento, il metamorfismo – mi permetto di rinviare alla mia prima monografia calogeriana, C. Verbaro, Le sillabe arcane. Studio sulla poesia di Lorenzo Calogero, Vallecchi, Firenze 1988.
13 Per un’analisi di questo processo di auto-individuazione nella poesia di Calogero, cfr. Ead., Essere «io». Il soggetto poetico da «Ma questo» a «Quadeni di Villa Nuccia», in I margini del sogno cit., pp. 127-45.
14 Le citazioni sono tutte tratte dalla presente edizione di Avaro nel tuo pensiero, rispettivamente pp. 38, 101, 46, 183, 165. Nelle prossime citazioni dalla raccolta si indicherà direttamente la pagina nel testo.
15 Sinisgalli, Nota cit., p. 7.
16 Questo topos della misurabilità metafisica secondo Sechi associa Calogero ad Amelia Rosselli, in quanto «la materia fluida e incoerente della percezione e delle immagini […] appare disciplinata attraverso faticose controspinte razionalizzanti» (M. Sechi, Una poesia al limite. Fattori costruttivi del discorso calogeriano, in L’ombra assidua della poesia cit., p. 217).
17 L. Calogero, Quaderni di Villa Nuccia, in Opere poetiche cit., II, p. 378.
Il testo manoscritto, sul quale si basa questa prima edizione integrale della raccolta, occupa due interi quaderni (81002 Avaro nel tuo pensiero/A e 81003 Avaro nel tuo pensiero/B) del fondo archivistico Lorenzo Calogero, conservato all’Università della Calabria. I due quaderni presentano quella che appare come un’opera organica, predisposta dall’autore per la pubblicazione, con frontespizio (contenente nome dell’autore, titolo e datazione: Campiglia d’Orcia, 16 ottobre 1955 - 27 ottobre 1955), e indice in coda.
Nell’Avvertenza al secondo volume delle Opere poetiche edite da Lerici, illustrando il piano editoriale complessivo, poi rimasto incompiuto, il curatore fa riferimento a un dattiloscritto di Avaro nel tuo pensiero (A), di cui non è stato possibile trovare traccia. Non è escluso, ma neanche provato, che tale dattiloscritto sia venuto in possesso di Amelia Rosselli nei primi anni ottanta, all’epoca del successivo progetto di edizione, anch’esso fallito. Delle bozze di stampa della raccolta, con correzioni a mano, realizzate evidentemente in vista dell’edizione a cura di Amelia, risultano copie in possesso di privati: una di esse è nelle mani di Caterina Verbaro, ed è stata doverosamente considerata in vista della presente pubblicazione (B). Non è stato possibile tuttavia, alla luce delle risultanze documentali e delle testimonianze, capire se questo testo giunto allo stato di bozze sia stato riprodotto sulla base del dattiloscritto (A), oppure se esso derivi da un altro dattiloscritto, autonomamente ricavato, in anni più tardi, dal manoscritto autografo. In ogni caso, a questo secondo testimone non è possibile attribuire un significato dal punto di vista dell’accertamento del testo, ma solamente dal punto di vista della storia della ricezione e delle edizioni calogeriane. Si può e si deve peraltro segnalare in questa sede che, nel complesso, la versione che esso esibisce risulta non priva di mende e di fraintendimenti: il più macroscopico consiste nella «invenzione» di un componimento in più, derivato dall’erronea divisione in due del componimento Sebbene le clemenze, a partire dal verso «Un capo dondola» (che è semplicemente un «a capo» rientrato).
Una scelta antologica di 13 componimenti della raccolta fu pubblicata a cura della stessa Rosselli sulla rivista «Tabula» (1980, 3-4), con una breve nota informativa firmata «Am. R.». Di tali componimenti si fornisce la semplice lista, senza ulteriori considerazioni riguardanti l’accertamento dei testi: Decaduto ogni giorno; Sento capricciosi eventi; Tu potevi non chiamarmi; È permanentemente vero; Cadono vani sogni; Sono arsi i movimenti; Quali beati lampi; Forse perché partecipi di un modo esatto; Roso il sangue, una verbena; A tardo strazio la notte era; Sapevi addormentarti; Mi conviene sotto archi; Per quanto egli amò con gloria.
Nella trascrizione dei componimenti che ora offriamo al lettore si sono rispettate sempre le forme usate dall’autore, anche quando ortograficamente anomale, salvo per quanto riguarda la punteggiatura mancante o errata (il punto fermo viene perciò aggiunto, o sostituito a una virgola, entrambe le volte in fin di frase) e la normalizzazione dei «né» e «sé», segnati con accenti gravi sul manoscritto, nonché di «se stesso» (talora nel manoscritto con accento: «sé stesso») e di «qual è» (talvolta «qual’è»): in questi ultimi due casi l’oscillazione dell’uso consente di ipotizzare semplici lapsus calami. Di lapsus meccanicamente ripetuto trattasi evidentemente anche nel caso della forma «esterreffatta», che compare nel titolo e nel primo verso del componimento L’aria grigia esterreffatta, e che si è pertanto emendata.
Nei quaderni i componimenti risultano vergati nella stesura di base in inchiostro stilografico blu, mentre le correzioni sono talvolta a inchiostro, ma per la maggior parte a biro blu. Delle varianti si dà conto più avanti in questa nota, solamente per i casi di varianti multiple e indecise, oppure quando le correzioni abbiano creato, per imprecisione di tratto, lacune o dubbi.
I titoli dei componimenti, che corrispondono sempre, in tutto o in parte, al primo verso, sono stati uniformati con l’eliminazione delle parentesi in cui talora sono compresi. Sono stati eliminati altresì gli «ecc. ecc.», che in qualche caso stanno semplicemente a segnalare un riporto parziale del primo verso nel titolo. L’indice autografo posto alla fine del secondo quaderno (che in questa edizione non si riproduce) registra talvolta in modo leggermente difforme i titoli, ma di tale difformità non si è tenuto conto, trattandosi di scostamenti meccanici evidentemente prodotti dalla ricopiatura, che vanno considerati anche in questo caso come frutto di semplici lapsus calami.
Per non appesantire il testo della raccolta con apparati, procediamo senz’altro a registrare in questa nota la rassegna dei casi dubbi, che hanno richiesto una valutazione critica da parte dei curatori, dando conto brevemente delle ragioni in favore della lezione scelta:
Tu potevi non chiamarmi: al v. 9 è scritto «sei» invece di «sai», a causa di un mancato adattamento del verbo alla forma definitiva del testo (dalla prima versione, «che non sei più per riconoscere», alla seconda e definitiva, «cui non sei più pensare»).
Forse l’annuncio vano delle parole: al penultimo verso, per la parola conclusiva di incerta decifrazione («incontro» o «incanto»), si è preferita la lezione «incanto», anche per congruenza con il verso finale («di cui da anni siamo privi», che appare aggiunto nel manoscritto, in uno spazio ricavato).
Se qualcosa timido risuona: al v. 32 si corregge «sogno» al posto di «sono», per congruenza semantica al contesto, avvalorata dall’attrazione di «sognato», al v. 30.
Se mutate ombre: al v. 6 si mantiene la forma «grige», che attesta usi ortografici correnti anche in autori canonici del Novecento (si veda Saba: «spece» per «specie»).
I traguardi frugano le ore: al v. 1 si opta per la forma «fugano», perché la «r» è cassata, e nonostante che nel titolo risulti chiaramente la forma «frugano», anche perché l’uso della variazione, frequentissimo nel corpo dei componimenti, risulta attestato nei titoli anche in altri casi.
Il sole delle case ha invaso le cime: al terzultimo verso in apertura l’autografo presenta una «o» che si è deciso di eliminare perché il carattere è totalmente riempito, e dunque verosimilmente cancellato.
Tu pure sapevi nei segni: al v. 7 si mantiene la forma «dissidii», evidentemente preferita dall’autore.
Odo qualcosa con ordine: al v. 31 del manoscritto («sguardi vidi, vvidi, discendere») la terza parola risulta vergata chiaramente nella forma «vvidi»: si preferisce scioglierla in «vividi» anziché contrarla in «vidi», anche perché in Calogero la ripetizione immediatamente consecutiva di una stessa parola è assai rara, mentre la variazione fonica e semantica è frequente.
Quali beati lampi: all’ultimo verso si è deciso di cancellare la seconda parola «in», che è del tutto incongrua, e che è assai verosimilmente un residuo di una versione precedente, accennata e subito scartata, di cui vi è traccia in una piccola cancellatura (che segue immediatamente la parola «in»).
Intima una vita liquida: al v. 7, dopo «leggero» si recupera «il» dalla variante sottostante cassata, poiché la cancellatura dell’articolo appare erronea e involontaria.
Ancora sogni. L’anima vagante: al v. 16, sopra la parola «sul» è scritto «dal», e la variante risulta sospesa (si preferisce pertanto mantenere «sul»).
Io sapevo esserti diverso: al quintultimo verso si corregge «questa» in luogo di «questua», che è un evidentissimo lapsus.
Un problema a parte, e di grande importanza, è quello della datazione. Non vi è alcun indizio che tale datazione così come riportata sul frontespizio di entrambi i quaderni (16 ottobre 1955 - 27 ottobre 1955) possa riferirsi all’epoca di una copiatura in bella, e del resto non è stato possibile rintracciare, nei quaderni dei mesi e degli anni precedenti, alcun elemento testuale che possa far pensare a una gestazione progressiva della raccolta. Di conseguenza, non mettiamo in discussione la circostanza dichiarata di una stesura concentratissima, un vero e proprio forcing di ideazione e di scrittura, che viene ad avvalorare l’idea di un metodo di lavoro assorbente, al punto di togliere tempo e vita alla vita vera dell’autore. Questo aspetto del caso Calogero, il segreto del suo febbrile «come lavoro», rappresenta tuttora un motivo di stupore, e di dovuto, specialissimo rispetto.
La trascrizione diretta dei quaderni è stata effettuata da Sonia Rovito e Graziana Francone. Alla revisione finale del testo ha collaborato Annabella Petronella. Desidero però dichiarare che questo libro nasce da una collaborazione di squadra, e da una condivisione piena delle responsabilità scientifiche da parte dei due curatori.
Bari, 10 giugno 2014 | M. S. |
Questo volume rappresenta il secondo momento di un piano editoriale, concepito anni fa dal Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria, sotto la direzione del professor Vito Teti, con il sostegno della Regione Calabria, e concretizzatosi finora nella riedizione, per lo stesso editore Donzelli, delle raccolte poetiche giovanili di Lorenzo Calogero (Parole del tempo, 2010). Il piano originario puntava a rimettere in circolazione, in forma riveduta e corretta sugli autografi, le opere edite e non più disponibili del poeta, e a far emergere dal silenzio altre porzioni rilevanti del suo ricchissimo archivio. Immaginabili e meno immaginabili difficoltà di reperimento di risorse hanno complicato e quasi bloccato questo percorso. Per la generosità e la sensibilità della UBI Banca Carime, e del suo presidente professor avvocato Andrea Pisani Massamormile, e per la collaborazione dell’Università della Calabria e dell’Università Aldo Moro di Bari, siamo infine in condizione di far ripartire il progetto, con l’auspicio che possa più compiutamente realizzarsi.
Sono inoltre dovuti, ma anche calorosamente sentiti, i ringraziamenti agli eredi del poeta, Lucia, Luisa, Mario, Michele e Pietro Calogero, al personale dell’Archivio attualmente custodito dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria, e a tutti quanti hanno condiviso nelle motivazioni e nel concreto lavoro questa esperienza.
So che non occorre tempo e questo è molto.
La fine è assidua.
La verità tua era appena un disegno a volte.
Lenta
sapeva essa questo solo o quello
al lieve contatto, come quando s’alzano
dal mare le montagne e da lievi carezze i gridi,
le brezze fini dell’aria su le curve
de le lunghe linee su le dita
come le altre bellezze non più tue declinano.
Potevi interrogarti ma una parte
sola era vera del tuo cuore.
Fortemente si spezzano
o si sognano leggeri dormenti i vizi.
Su deserti venti oggi alberi si piegano.
Appena essi si alzino soli
ebbero questo o quello solo
che minutamente dentro una tua parola,
nel vespero o nella sera dei nitidi tuoi occhi
umida si vede.
Ragazzi all’incirca sono già ora.
Vedono essi lentamente.
Si dispiegano le vele.
Ma perché non sempre la fede aerea tramonta
e sopra i sortilegi ondeggiano le acque
silentemente in esse
camminino le cose
muta ora, da onda ad onda, nuota
quando nuda in essa la verità lieve
nascente la bellezza umida
si pieghi.
A tardo strazio la notte era
sopra tutte le cose che sembrarono strane
e non negava una sembianza tacita
quella che era vera solo nelle immagini
delle strade e si beve il senso.
Fu di volta
in volta sopra le arse zolle
una città gelida o sognante.
Pure, purché miriadi di scintille
oggi si piegano e non più lontano è il murmure
del mare denso che ebbe una volta una città quadrata,
sopra uno stelo a caso oggi ti affacci
sulle abitudini della tua vita
e non erano più esse quelle che tu chiedi
nel cerchio di un desiderio immenso.
Si sprigionano le onde che furono
una volta sola le tue stelle
e non fu la tua più che una squallida innocenza.
Un silenzio solo è ora
completamente amico.
Sopra mormorii quadrati,
di onda in onda, sopra una vetta antica
perduta, di gennaio, i tuoi sogni
sono oggi esigui.
Nubi dense appaiono
e non fu più che sogno,
una vanità che lievemente oscilla
dentro le tue mani modiche.
Un sapore
esse avevano di neve
che teneramente, internamente brilla.
Lontano sui misteri guardi, le onde
conosci, quel che era a schiera non veduto
nel nostro sangue, dai sogni caduti
solo per terra.
Oggi si ripaga una parte
della natura del nostro sangue modico.
Quel che era marcisce come la febbre o già cera.
Ma non ti contraddire! Silentemente
squallida era una verità sorgente.
Un triste segno levigò sopra i marmi
un vezzo in un oceano ch’era solo di uccelli.
Sopra una marina chiusa con cura
una curva era un arco dentro un’altra
più attigua.
Se un segno si rompe sempre
ed ora era una linea, ora un nonnulla
un caro precipitato coro di un pegno
entro una schiera tua contigua, non ho più venduto
nulla di te, non ho subito più di te
oltre che un disegno di un nostro sogno
che tacito inclina.
Chi vi prese parte
era sopra il pane del nostro grano
che rigermoglia sempre sopra la terra tua già mesta.
Ritornerà palese l’altrui dolore
più nella pena che nel disamore.
Un tacito accordo comunicò da diverse
parti alle trecce delle rocce,
e perché mattina non era più quella, che è inferma
da volubili segni, scavò la sete dell’uragano
quella che era di te più intensa.
Se ti tocco
era appena nato un moto del nostro sangue
sopra una pallida tua mano.
Non visibilmente,
non diversamente si contenne
ciò che traccio per puro caso nel niveo
tuo rossore, nella rosea diversa nudità
delle penne tue che amo.
I sogni non sono proclivi.
Non so più che amo. Quel che sono
puramente s’ignora. Una mattina ferma,
ora questo ora quello, un vaporoso senso
di un richiamo della sera,
una pura pena ti dettero.
Sono fuorviati i sensi dalla mano.
Non so più che aereo suono
era nella lievità delle tue dita,
quale stella era più prossima e attigua
ad amarti, quando trascorse querulo
e gelido nel tuo nome il compleanno.
Pungente era pure una morte schiva.
Non questa era la tua fine. Presagita
vicenda era da sempre che ti attende.
Rigidamente inclina
beltà splendente a le tue dita.
Non è più cortina funebre
dall’alba al tuo tramonto
celeste che non amo.
Da un pezzo è già finita.
Da grigi vetri
qualcosa cadrà nelle mani ondose.
Odi: pesante è l’alito di un ballo.
L’anima era tersa, tesa al suo domani:
forse era dentro un piccolo cristallo.
E perché molte cose avvennero
non chiedo ormai di più: o essere la sabbia immutata
o un bacio di neve ne la nebbia
o un passo tuo innocente.
Nulla è già mutato
sul mio passo, nella mia faccia
di soldato, nel mio vestito lacero,
nella tua festa piccola di un ballo.
O nulla mai ti ho dato.
Una pianta era nella selva già distesa
quanto quest’ansia era umile
ed umida di pioggia questa sera.
Perché, vedi, di te, mai di nulla ho dubitato.
La selva conosce corrosa se stessa
a metà. Forse un piccolo
patetico struzzo, grigia l’aria,
già inclina e non sono state mai le mie parole
un mezzo giusto per indurre
a difendere quanto l’ombra rovina.
Scocca l’ora nella penombra solida.
Mai furono povere inerti cose
e parvero cadere prima di sera
frantumandosi dentro una stella.
Era un tuo pensiero
unico vergine un punto assiduo come le vele
di là da un anno del tuo ritorno
da un giusto senso
su un tuo sentiero.
Furono vane queste piccole vicende
e se io ti amo non è più che un canto
eguale.
Un suono è dimesso
ora sul verde, un più o un meno
che ora va ed ora viene, una croce
o una stella.
Era doveroso un suono
argenteo, timido.
Un ricordo si sfiocca
variegato nel nulla.
Cade a metà aereo sorgente.
Sono vivido di sorprenderti.
Cade fitta l’ora giusta,
e non dissuadendosi dall’ora
grave del giorno più s’avvera,
dentro una stella, un pallido
ritorno di se stessi dentro una vela.
A mutati sensi i venti gridano.
Sono un profilo pallido, un senso
soave disadorno di parole, un pensiero preciso
dentro un punto fisso nel suo vuoto.
Se ritornano incendi
non ti ho detto nulla.
Magra
amalgama rossastra era un tuo ritorno
nell’atto intenso di un tuo denso bacio
nel tuo stesso moto.
La pioggia sorridente
e il bosco avaro, ma non come ti dissero
immutabile più libero e diverso
da quello che aveva impresso il suo stesso corso.
Le nuvole folli erano mobili nel cielo.
Un coro erano a volte nel buio
del tuo stesso vuoto.
Sebbene riconosco me stesso
non so con quali occhi ora mi guardi,
(ed era lento un suo sentire) non so con quali echi
entro quali volubili onde rare ti colsi.
Non so più che dissapore
o disamore che fu nell’anima vaporosa
mutata dal soffio del suo vento
in un soffio così simile all’ala
della materia, nella grigia capricciosa
gioia dell’alba o della nebbia sua rossastra.
Quella ch’era un’aurora
era balzata limpida e sola
all’altezza splendente del suo cielo.
Se questa era una gioia ora vedi le strade
danzare a destra, o questo
era un capriccio lento del tuo cuore.
Naufraghe e lente le ore discorrono
fra loro e chi una beltà supina
dentro un fuggevole volto ebbe
nel suo cuore, alle stelle rivolto, nel riposo
suo s’inganna, e in chi non ebbe
più volontà d’amarsi sempre ritorna
dentro risoluta solida un’impronta.
Una scialba isola era così sciupata
e rara, così composta e fuggevole
una macchia già nell’ombra.
Ritorna l’orma che non veduta
più non si racconta. Ma posso attenderti
già in altro luogo. Altro non sai mai
di me se tiepida una voce era o tipica
era una sua struttura
o del bosco errante era già una tua favola.
(Poesie)
Campiglia d’Orcia
(16 ottobre 1955 - 27 ottobre 1955)
Alla fine i tuoi pensieri vagarono
soli. Non è pace più l’anima residua
perché in essa non si ripercuote nulla
più della sua natura.
Sulla terra
tesserono invano nei suoi lineamenti
i sensi tuoi remota e mesta
ai passanti una luna.
Con calma calò rosea una sera.
Intorno era un intenso rossore od un’ala.
Nella mano con pena un ritmo era sicuro.
Degli occhi glaciali era vera una danza.
Affrettati suoni e passi com’echi erano pure.
Io ti chiedo infine quale aereo vapore
ancora non era, quale zelo era caduto per terra.
Mi dolgo e mi affretto anch’io.
Non era più pace all’interno.
I lineamenti
tuoi più non odo e l’uno dopo l’altro era vero
quel che nel buio con pace risuona
o lentamente triste s’avvera.
Sagome alate
e il dolore umano erano pure.
Sopra tutti
non valse più una sera, quella che aerea
nei tristi occhi tuoi vuoti l’ombra raccolse
con pace già caduta altrove.
Non potevano più essere i tuoi cigli asciutti.
Il sole non era più lento come già il vuoto
era così cauto nel cauto inoltrato incedere
al limite della materia.
Il limite massimo
sapeva internamente essere
quasi una ferita dentro la mole
della luce densa del sole.
Quando densa una pace era già una schiera
per semplice desiderio o non era più quella
la tua voce, un vasto flutto come un lago
suo di foglie tutta ti commuove
e già ti serra.
Non valse più rosea una tua sera
in un letto suo di foglie e non valsero
più cose non nuove, ora modeste.
Si rispecchia
il frutto maturo dei tuoi giorni.
Se io ti indico un luogo non era più quello
come il lampo che si stringe
alla tenera tua gola e se, guardo al largo,
non era più nulla con cui si cinga
remota già una siepe.
Non so che dolcezza unica fu sui lunghi steli
raccolta ai tuoi passi se ora si rallenta.
Sui prati dei corpi
dei nostri morti fiorì una lunga sete
o una gioia tanto remota immota
tattile che ti sente e già li tenta.
Pinnacoli sono oscuri già con gloria
lungo i canali, nei sibili dei rettili
e, forse, inutili sono scevri i segni
dei sogni delle lunghe ore
delle selve tanto attese.
I tuoi gridi improvvisi
odi di anno in anno
e giunti come un segno su le stelle
nivei rincorrono un silenzio.
Il tuo nuovo senso erra rigido d’amore, nell’assenzio.
Perché di anno in anno
non più diversa era una prova,
dove germogliano inverni, silenzi
dei dì e una patria non nuova
già vedi, rincorri glauca e rotonda
quando s’affaccia o tramonta una luna.
Il marezzo non è così inverso
come il grido che ti colpì.
A rovescio
una medaglia era già dentro.
Te pure trasse
una larga mano che più non ti rapì,
e tormenta un altro dubbio quanto un ricordo
era di un mendicante, il grido soave dell’amore
che chi non è più giovane, dopo tant’anni,
sempre capir non può.
Se mi appago e mi fingo
non mio, non più s’invecchia
appoggiando un tuo gomito al mio fianco
che trasse pure e prese dal mio fango
un suo spiraglio insolito in disparte.
Un fiotto sul collo già era
o alla parete arida e non era indarno.
Cose nuove certamente già prese
mi meravigliarono, ma non rincorro
più le stelle.
Erano esse lungo un precipizio
gracile ma non più dentro il mio.
Sottile al mio orecchio
era anche un nuovo tuo sbadiglio.
Ancora sogni. L’anima tua vagante
era nel nulla tuo e tranquilla e se amo interrogarti
non era più di chi conosce
meglio di te la nostra pena. La mano
era oscura. Ma valeva adornarsi.
Fiori erano accanto con la tua stessa gioia.
Isole ferme erano pure ai tuoi ginocchi.
Trepide come fari accolsero esse
ciò che più non vale raccontare.
Raccontarmi era vivido un ricordo
tuttavia incuriosito e intrepido ero
che in vividi vivesti aliti negli occhi tu da sola.
Il fiato freddo del prato era vivo e tuo.
Silenziosa era forse la tua fine.
Ora pieghi come quando gentili pieghe
di nuvoli folli sbocciarono sul tuo volto
dal cielo a fine d’anno.
Era anche lieve forse il petto.
Non era più il tuo sonno
nel ritorno diafano percorso.
Udivi sulle labbra discontinue e tue
come un arco che era d’argento. Dissimile
e liscia mormorava una mattina fredda
una parola che odorava solo di notte sola.
Interna tristezza già eri.
Pallido velluto verde il tuo
un inganno era solo e lieve se striscia.
Ma non perdere la fievole tua forza china.
Risillaba la memoria tua fuggevole
ciò che perdere più non potevi:
perché per tua fortuna tanto non era, già, più agevole.
Se di mattino ti alzi, confesso,
non sei più la sola, non è mai sbocciata
così una tua lagrima di adesso.
Confusa
sei o sognante ne la nebbia
d’una tarda tua parola.
Labbra
scivolarono lisce ne la nebbia avara
(l’anima più non era sola), e l’amara
gioia ch’era già con esse, quanto le inganna
e ne l’aria le separa assidua era
una voce unica tenue
ad intendersi stormente.
Sento a la foce
roca lenta già di un fiume
quel che non era tenue e cadeva
o s’apriva alla speranza.
Ingemmato su la sabbia
un corpo confuso era di neve
e di aria che ti ama o non vuole
più protendersi.
Un corpo vaporoso
discinto in due era di gioia
e di gloria, un ciglio al suo risveglio,
residuo terso teso, di uno che si salva
o che ti chiama.
Fuggevoli gridi tocchi
e non è più una remota attesa
che si prepara.
L’anima odi
e non ti accorgi più di essere
nel blu sognante dei tuoi voli
risorgenti dentro un astro del murmure
ignoto del tuo mare, quello
che, per l’altrui dolore in brevi
folti cigli asciutti, è un canto
separato, forse troppo breve,
remoto in un paese
che la febbre disimpara.
Non so se fu fermo cuore il fuoco
che vivido si accende dentro un deserto fiore
di limone o in due un giuocato
inganno si concede.
Non volubili onde valsero
ad addolcire con pena un tuo fuoco,
un talismano grigio e breve, simile
all’animo di coloro di cui non era luogo più
luogo leggero o lungo raggio
o una danza o quello deserto e triste
di uccelli di cui non si descrive più il volo.
Non valeva sogno o arso canto
(parvenze non più vere rapide già erano)
e perché giuoco o inganno sono la medesima
sete, non so qual era il fiore dell’uragano,
quale era ora sordo il senso della materia
nella memoria che più non ti conviene.
Com’ebbero assidui richiami i batticuori
nel fondo lento riamato ecco accorro
e mi sporgo anch’io nel fondo tenue
e vanamente pianamente in sogno
e non sono più che te, che un vago senso
residuo teso lento del tuo sonno
od appena un flutto ombroso.
Lenti
sortilegi i pregi già ammirarono
e non conobbero disperato un abbandono
dentro i luoghi certi.
Canto aereo sonoro scorre alle tue dita
alla tua fine e quella lenta
che più le tenta e in vita
a sommo del tuo cuore
e non conviene più ridire.
Scialbo
era il calore, come se da una vetta
a metà perduta, rinasca, com’è scritto,
in luogo del tuo sogno o di una gioia
d’alba una gioia fuggitiva
così come io ti porgo.
Seria
non viva la verità furtiva
era a metà scritta dentro un cuore
che non più riviva.
* * *
Chioschi son certi,
immutato il dolore.
Dall’anima
non più viva fuggi ora pei boschi.
È incantato il tuo gregge
che almeno metà della metà della strada
silenziosa percorre.
Se più di una volta, non più pensoso
rividi nella mano tua schiva il dolore
e, passo dietro passo, a passo di danza
l’ombra era già acerba ed esigua,
si riasciuga questo pianto
e non quello.
Così dissimile al pensiero
non più prossimo promesso e vero
non più lo stesso era quello che strisciava
con l’ala acerba
accesa dell’alba.
* * *
Strano potrebbe essere. Sulle pianure
era un largo coro. Pensare a certe cose
era come avvenissero solo in cammino.
Non si ode più il ritmico
ignudo rapido viavai:
nel bosco non si ode e non ritrovo
più certo il riposo.
Tu sapevi dolcemente scivolare
e non s’incamminava più nei tuoi occhi nuovi
ne la tua voce umana che fai per perdere
e più non ritrovi un limpido
sereno tuo tenero brusio
come qualunque altra cosa
già accaduta altrove.
La certezza d’avermi accanto
era ormai ignuda al tuo fianco,
semplicemente un tuo nuovo ricordo.
La verità non comprende più se stessa
e questo era quanto d’ardire
e d’ordine era solido al tuo fianco.
Si difende
ripida una rupe da una nube, nella vena de l’oblio
sempre in moto calmo eguale, dove più avida
il tempo non l’attende.
Sapeva un vuoto
il mormorare di opachi freschi venti.
Era gommoso un tuo opaco nulla,
un tuo passo ritmico e poi come uno
più lieve lo desidera, nella più calma
quiete, un grido unico e gioioso.
Era desiderio intenso la tua bruna gota,
la tua voce avida a riaversi
di conoscersi e di intendersi
nel rapido segreto dello sguardo
lanciato in un giorno
che fu tutto gramo in uno tuo limpido
di festa.
Lacerando fili tenui
dell’erba era ignudo o diversamente
attonito un tuo grido sempre eguale
che su se stesso aereo si versa.
Non voglio ricordarmi più del resto.
Nuda voce del bosco in una inerme
tua contesa nella tua voce già rimormora –
– domani comprenderai anche tu! –
e ricorda la tua stessa attesa.
Vane
le mie parole forse dentro
le tue parole furono.
Un fiato ormai dolce
d’alba era sospeso alla trepida
tua sera.
E quando i venti
su le tue parole non sono più un ricordo
e queste sobrie e proprie sono
già di un uomo, saprai già quanto piccole
scintille arsero ed invasero non vive
e lente il tuo corpo prono.
Potrebbe anche essere
quel che avevo richiesto per te: un pensiero
come un piccolo abbandono.
Mutate sembianze promesse trasparirono
(traspaiono anche oggi) e sono quel che sono.
Dimenticanze trascorsero come nomi. Numeri
anche vedrai domani, e se questo è esatto
non vale più per dimenticare.
Se mi dimentico di te sono un puro corpo
teso e se più di una volta un consiglio
che poteva essere modico si sbaglia
una vetta da una più antica
come un nuovo essere si staglia e se ti dico
e rivendico, questa è più già che una tua meta.
Mi converto follemente in una cosa sbagliata
e non riconosco più quanto era il suo nuocere.
Dentro una sera una rosa era così gentile
ed in seriche strisce di un senso era già orlata.
Rincorro te nell’alta effige
d’un muro tremulo odoroso che ci separa
e ti divide col terrore antico
col moto fragoroso di una legge
nella sua grande ala.
Era un ritmo sensitivo
e, per più di un attimo già breve,
era di un silenzio un atomo che dura
e, dentro un giorno immenso
di una gioia severa, una cosa avara.
Sapevi addormentarti anche
nella grande ala dei morti
dentro un antico desiderio e, sebbene
rimormoro in umili bende la sete
della salute morbida della giovanile
potenza ch’ebbe una volta la terra
sospesa o tetra o azzurra, arida
ch’ebbe essa un giorno dentro una favola
era un sospiro povero, supino,
spesso voluttuoso che accade
nell’immensità umida, spesso declina
o già si accende.
Sono persuasive le tue parole
dentro un ordine falso, ora anche
un dolore dentro uno scheletro
esatto che presto se stesso, non per molto,
riprende quanto non sapevo più dire
o un tulipano carnoso vivido di fiori,
umida una sera, che spesso, lievemente
smossa la brezza del vento
risplende.
Non so più se fu più laborioso
il caso di farmi sapere nocivo,
quanto fu per me il caso
di non essere vivo nell’opacità distesa
tenue della terra.
La tenuità stessa dell’ora
da sola nell’aria sempre già ti attende.
Il transito dei fiori dall’ombra
alla penombra sempre s’avvera.
Non è più rosea, né bruna una selva.
Ma questo è casto. Un canto, che ti cinge
vorticosamente in due, separatamente
nel tramonto sdoppia fermamente
la tua sera.
Forse non ricordo più nulla
di quanto era vivo e disperatamente
vivido accende entro un ordine curvo
sopra acque la strana sua lievità
morente.
Mi piacque nel sordo
rivolo il ruvido ricordo nel canto
della materia che pareva plumbeo.
Il volo del pensiero pareva nascere
per essere più solo.
Comunque come compenso ebbi acque
e in abbondanza.
Non nego ciò che pareva
per essere più povero.
Sempre odo
per aver avuta la stessa vita
remota in dono, simile a me stesso,
da uno che sembrava per essere già in volo.
Sui monti sapevi vagare.
Uno sguardo tuo era l’illuminante
magia del tuo sole, quando fisse
remote si adunavano sotto un’ala
di luce forse un perpetuo incanto
o un ritorno remoto da fitte tenebre
note a te sola, la saviezza del giorno
nel senso nuovo denso dell’essere e la notte
acuta obliando.
Una pigra
grigia favola era appena il tuo volto
e poiché apparivano immense
distese le cose era appena
apparenza di cielo o di cose non vere
un nuovo tuo sguardo.
Errando di luna in luna
si consunse l’uomo al tuo fianco.
Tu sapevi quando.
Sapevi quanta vicissitudine
alterna era ora che imbruna
o imbianca.
Averti al mio fianco
era un disegno ancora non noto
dal disegno tremulo d’un giorno
della tua fortuna.
L’abbagliante essere
o il non essere erano simili a un modo
gentile, a un segno tuo simile
a un modo nuovo ad un diverso
tuo transito. Pallide chiome
erano un volatile segno nell’uragano
che io più non reclamo. Chiedere
non era più che un insolito inospite.
Erano nulli i pensieri, quando una squallida
mano, remota ombra opaca, era chiusa
in sé sola alla fine di un anno,
alla tua festa in un bacio.
Ma non avverrà mai più quel che desidero.
Incespicavano ombre opache antiche
sopra una remota brughiera esigua
da una pallida mano trafitte
dentro una lontana effige
dentro un soffio già amiche.
Io sapevo esserti diverso e ben altro.
Ora odo solo e se penso pallido con gioia
mi affretto. So da qualche mormorio
ch’era attesa l’ora del bosco.
La pallida lontananza
squallida ed altro sogno erano
sulle aiuole le medesime cose
e sono le stesse ore la fragranza
ed il medesimo suono.
Nei tuoi dì chiuso
nella sfera che amo altra e leggera
sottile era una titubanza, la velocità aerea
sorridente, dal colle, del fiume,
e non era più invano.
Sul colle teso ed arso trattengono
il fiato dell’alba i tuoi dì socchiusi.
Altro era rivolto alla gioia teso
terso oltre la velocità nuova del vento
e del volto, che era sulle cose sconosciute,
soavemente era dimessa e distesa
la distanza.
Amalgame di viole
e di rose erano umide sembianze
che apparivano appena leggermente
dischiuse.
Non vane voci accadevano
per chi era chiuso in sé solo.
Era squallido contagio il senso
aereo veloce del suono.
Un fiato
leggero, trattenuto alla distanza
di quel che poteva essere legno verde
una noce dentro una voce
che amava aerea la tenerezza,
era sempre più celere viva del tuo tempo.
Capricciosi eventi, verdi erano pure.
Nel golfo verdi venti accadevano. Verdi sogni
ora vedi, verdi amare come le foglie
sopra una salsedine ingemmata.
Pure, perché nulla mai si abbia,
e tutto sia con pace pura
o verde come si sogna, pallida
un’alterna vena e timida una fragranza
invadono da per tutto il bianco
riverbero delle strade.
Rinverdì in altro amore
la tua sembianza che, per giuoco,
amò di notte, vivida come lampi,
una morte sconosciuta e le tenere foglie
si amarono a distanza.
I sogni sono quieti o violenti
e tutto ciò che non è più fulgido
o nostro nella tersa sera, se non sono ripagati
gli elementi, i grappoli dove non più s’ingrana
il desiderio della sete che non è più aria,
assidui divengono forse un batticuore
dove tutte le membra sono, sulla terra
tenera, aride e distese.
A speranze ti apri o sogni
e fuggi com’è vana continua
questa tua contesa nella tua stessa attesa
nella materia ignuda.
Riodono
quelle dolcezze a fine di un’anima
che erano tue da tempo a cui nulla sembra.
Sebbene le clemenze non siano più vive
ed ora rispondo a quanta larvata
salsedine si ebbe in un dono, oggi,
su rive fuggitive, quale alacre incanto
sapore tiepido del ricordo d’un mondo,
nell’essere, pure non so più rivivere
con te a la mia memoria accanto.
Ceduo era già un suo canto.
Vergine vagava un flutto.
Qualcosa che avanzava, tacito,
era quanto riconduce casta una fonte
gelidamente a una luce.
Mi meraviglio, ma non so dirmi
addio.
Un capo dondola.
Lentamente una ghirlanda era di cose:
era fumo, era fermo il suo fuoco a me vicino il suo sonno.
Vedi, non vuoi più sotto le nuvole
sole, sbiadito il sonno tuo,
sederti accanto a noi.
Il sole passa
non più si affina alla medesima altezza
un’onda azzurra, alla voce tua
vicina.
Non so quanto febbrile sogno era
nel tuo opaco nulla a fine di una strada
nel giro orlato d’una veste tumida.
La voce tua non era gelida o più quella,
quella che in pochi parchi azzurri erra di sera
e insolitamente di serra in serra.
Così lievitò una rondine un dolce alito
in un tuo ritmo, sempre, in più lieve selve,
quello che per me era il tuo,
che per me solo ora indovino.
Il tempo della inumidita distanza
dentro l’anima ignuda, sia o no un ritmo
sensitivo di una danza, ora so.
So la stellante
vicissitudine dei pensieri
bagnati dalla grazia.
Qualcosa avanza
senza nome, senza speranza
di essere mai lugubre o qualcosa.
Hai freddo trepido alle labbra.
Quando qualcuno si riconsola
o raggela nei facili tuoi giorni
sulla guancia, essi sono tutti funebri
e stranieri. Vede egli la medesima cosa
cambiata nella sua sembianza.
Tutta è mutata la mia inerzia,
strana gioia come la sua febbre.
La pazzia è una funebre voluta
che si raggomitola sempre appena.
Le città non sono più quale ozio
felice che ti suggerisce un suono,
e la suggestione della tua stessa calma
fiorisce come la tranquillità aerea
indifesa sempre, quali fili tenui
d’erba d’oro sui folti tuoi capelli.
Pure perché il sapere sia più giusto
e non quello che mi si indicava
dentro una funebre voluta
non t’invidio più.
Sapevo
come s’intenerisce la febbre stessa del tuo tempo,
e se nel tempo altra insolita usanza
amava di essere e non rifuggono le ore,
una dopo l’altra, sono esse la medesima
tua storia acre e soave
a fine di giornata.
Tu dici quale ordito non sia, quale
filo non svolazza più, quale sopra una pallida
guancia sia la mutata sembianza
che non è più.
Tutta nel fitto volo del suo sole
si duole una luce che sale dalle tenebre.
Di sera sono tristi le viole.
Guarda il paesaggio. Ancora presago
dentro un lago felice è il tuo ritorno
e dentro una sfera luminosa
turbinosa è una voce ancora.
Non è pallida
più un’attesa. Una palpebra si disse
felice nella lontananza dell’isola
dell’ombra, d’una funebre
sua tomba.
Non più il tempo si contraddice.
Un aspro suono di metallo era pure
felice nell’isola della gioia
che felicemente triste ti circonda.
La fonte era umida degli occhi
come gli antichi desideri o gli inganni
o gli uragani della quiete.
Si rompe celeste
da un albero varia da una scorza la sostanza,
e fu così vario vano il colore
che avevi mite nei tuoi occhi.
Tu potevi diafana e con forza,
sì, dirmi addio, ma io non la fuga
conobbi e quel che era una solerte
sostanza tua nel tempo del corpo tuo
che mai non varia.
Non ebbe mai occhi
(non fu del nostro tempo) una reminiscenza
di labbra tue così dolci e lievi
che si corrompe innanzi l’alba.
I virgulti son moti da un calore della gioia. Ora posso
in ispecie riavermi, ricevermi
in altro luogo a quel che ti fu vicino
oattiguo.
Nel ricordo un filare non così vergine
era su un fiore e vagò esiguo
pallido nel cielo nel suo volo e non richiese
alcun’altra mai speranza.
Incantate brume
assalgono dalle tue pupille cieche il cielo
e già grigia è la tua aria.
Non più sulle rocce, passo dietro passo,
seguì armoniosa una distanza
e non più volte posso fidarmi di te.
Il pallido bruno volto sul sasso rosso
era già esangue o appena era una danza.
Per quanto egli amò con gloria
era una pallida titubanza
che si narrò ai margini delle rocce.
Tutte le cose si narrarono a vicenda
l’obliquità compiuta
del mezzo azzurro a schiera.
Di notte si narrò di cose ad altro essere
e solo ad alta voce egli comprese.
Così raccontarono nel dominio della terra
tutte le ore le medesime sue cose.
Sui filari rampicanti erano i fiori
e un’altra cosa attesa oscura
erano altrove.
Erano rose d’inverno
per te messe in disparte
che per un piccolo uragano
abbellirò stasera.
Quanto puoi,
se le nuvole sono folli,
non metterò a soqquadro.
Un piccolo quadro triste era di fiori,
quanto io sono per un silenzio puro
felice che naufraga verso di te
ora nel buio.
Forse di te non apprenderò che un piccolo
screzio e quel che narrarono ai defunti
i fiori e un regno di un silenzio
felice da uomo ad uomo per un caso strano.
Di marzo si era od a fine gelida
di anno. E se per più di un tempo
scarno sono compiute tutte le tue cose
che tu più non dici non è più triste
il tuo compleanno, quanto quello di un altro
che ebbe nella sua voce la voglia
e un nome. Sono un uomo meno puro
di quanto un piccolo uragano raccolse
nelle pause sparse e lente, silenti
i suoi colori.
So, non valeva altra gioia
il ritmo di quella che nel mistero
suo si guarda. Sopra una spalla
scivolava strano residuo teso.
Sopra le zolle sparse erano già zone
strane penombre senza zelo.
Oh! guarda.
Non questo o quello ella già era!
o giovava più alla sua giovanile faccia.
Se dormi il plenilunio usciva illeso
da una guancia sul suo cielo,
quando da un vortice del sonno,
rapito esteso mutamento del tempo
da un ritorno della zona sulle acque
trafitta da una lancia, nel suo viso
era l’immagine del vero.
Quando da la solitudine dei boschi
che trascorreva era preso da un suo vortice
nel giro di una danza, non era così profondo
così stranamente esangue, esiguo,
come tu dici, il batticuore.
Un grido di un anno, immerso nel suo sonno
non era più quiete emersa da se stessa
che si guarda alle radici.
Da pure mani
tenui, increspate ed avide
senza fine con terrore, avida
era pure la tua pelle dal tuo corpo
appena emersa fra il fumo delle nuvole
e le aiuole, delle piante fra le ombre.
Se preso dalla sagoma orlata
d’un tuo senso, ora so a memoria
quel che tu mi dici, ora esso è il cammino
tuo simile ad uno ch’era mio
da immemorabile tempo perso.
Ma più non ti discostare!
Sono in sogno. Accade
un ghirigoro spesso
di cui non so l’immagine e la fine
che rade l’aria dentro una luce smossa
e cade dentro.
Sono in me. Era folto
verde cupo, già, solo ora, un cipresso.
Sono sgualcite le tue ore lente
e ciecamente si risommerge
quel ch’era chiuso in me stesso.
Un baratro più non si riconosce.
Lentamente, minutamente è il corso
il farsi lieve suo dolce e diverso.
E perché accennando
alla morte avanti l’alba
si spegne un tuo pensiero, e non posso
più avvicinarmi a un desiderio immenso,
né lietamente accendermi della fine
nel ritorno d’un mistero.
Amico alle mie spalle
un labbro era pietoso e tentennante
che era già per chiedermi.
Se bellezza
oggi ti opprime dai rischi
dell’altrui dolore, seduta immobile
aerea e si difende casta
quanto la nebbia del tempo è lieve,
da sola basta sempre più a riprendermi.
Discesa dalle nuvole ella vede
disteso, odoroso di muschio,
sempre un tappeto verde.
Quel che avviene
dopo non è poco o molto o acerbo frutto,
è un puro poro in un senso obliquo
celato un po’ alla lettera.
Era saggio
come dentro era una sfera, densa,
che ricerca in se stessa
un suo pensiero.
Nuvole sono già strano enigma
terso perso durante il mio cammino.
Una sembianza nuova si duole
senza senso verso un’altura
od un’altra lontananza.
La verità che s’incrina è passo leggero
simile alla danza che si avvicina. Così retto
amore ora muore, ora muove un passo breve,
te pure presa nel moto che si commuove.
Nella memoria acqua scialba d’alba
fuggevolmente irrora il tuo volto
di un accaldato senso ridotto
di un sonno ora rivolto altrove.
Nel puro silenzioso respiro del verde
in un punto ondoso è un poro preciso
da un pezzo che in altra sembianza
remota già si perde.
Non valgono mutevoli onde
o il senso è questo o è remoto passo
quando il tuo riso nuovo
le cose ferme non muove.
Alberi sono scintillanti,
mutevolmente radi sopra la neve.
E perché amore è vaporoso
e gelido come la tua sete,
so quanto aspri sono e diafani i colori
quale sia il tuo viso molle dentro i fiori
e non sazia del suo dissimile calore
già l’aria sia glauca entro le più lievi selve.
Voglio dirti quali lagrime scivolano
leggere da una più lieve gota se tu sei appoggiata
a un albero e un desiderio tuo veloce
è intenso a una vigilia. Persino il senso muta.
La voce del tuo senno al sereno ti commuove.
Tutto poteva essere diverso da quello
che ti attende nell’ala sonora del tuo sonno
o da quello tuo d’un tempo antico nel senso
tuo migliore e da quella d’una profonda
voce che passa e nella pausa chiusa
sua non muore.
Non altra lagrima amata
si riebbe al tuo fianco da quell’una
che, come dentro a un’ala, il tempo suo trascorse.
Potevano perduti specchi in miti
voci d’acque in un punto,
quando lentamente inclina umile la vita
o la sua veloce legge, essere prorompenti.
Tiepida una valle tipica
come un’ombra già era,
opaca la distanza querula
nel senso d’una vena d’acqua
o in quello muto celato
che era proprio de l’oblio.
Poteva perdurare con pena
e difenderti. Non più attonita
era dentro una vena varia una danza.
Non venni torridamente confuso
al caldo tuo. Limpidamente
era la neve se adesso più non vuoi.
Erano limpidi i dintorni.
Così diversa era una differenza,
sagoma acuta calata
celata dentro un bosco.
Non altro
riverbero calmo si ebbe, pigra
una foglia che trascorre querula
la lontananza strana, o quando caduta per terra
non sia e mossa dal moto veloce del vento,
non veduto, non celo o più non tocco.
Non mi piace a memoria
trascorrere i dì o non mi occorre
o ne so abbastanza e se qualcuna
delle antiche voglie in dormiveglia
oggi mi scuote, ne conosco ancora solo l’immagine
ne la voragine degli obliati giorni.
Così stridulo da ponente su umide gote
si comprende anche oggi quel ch’era
sollevato in alto, nei cieli, se filtra raggi
di luce rosea, roseo il tramonto, ne la densa sera.
Ti si corruppe e ti si compianse.
Si sapeva sì bene o male nel gruppo
magico, come un biasimo cambi,
perduto uno sbaglio (era appena
una voglia) e così il bene o il male.
Su acque tiepide trascorreva un’immagine
e non voglio più dirne bene o male
o dir nulla di me
o della perduta mole,
fragili rapide le ali.
Se disperatamente l’anima
si risveglia non so proporre cose nuove,
né mai un disperato dormiveglia: non fu mai così.
Me invece essa propose per mano di un povero
ciò ch’era invano e più non sapevo.
Era ora confuso amore, ora acqua acerba
vergine che acutamente in più o in meno
sale sopra i denti e nel niveo candore
nel suono suo si spezza.
Il suono suo non è più qui:
glauco o tinnente arso assiduamente
o diversamente.
Non valgono
più le cose naturali o abbastanza, né voglio
sapere mai di più né fidarmi
a distanza più di te.
Su le cose non valgono chiuse
altre cose, non so più che sia
rapida una cosa che non muore
che non sia già mia.
Sento una pallida riluttanza
così precipua a riaversi da dolorose sensazioni
esatte, come se un opaco sonno dall’alto
del suo sommo di un balzo mi risveglia.
Acerba una vita era già a distanza
e sempre più acerba era dalla vergine
sua veglia.
A verdi intatte cose
è nota la clemenza: così lieve essa era mossa
(non è sagoma gelata sopra il vetro
concessa sola a chi veniva solo dietro
solo accendendosi come gioia irriflessa
di un’opaca pallida lontana titubanza
nel vuoto delle sue sole origini
dal sole a una distanza)
da venti nei quali pesano ancora
le gioie che sono gravi.
A un poro pure è sospesa la suggestione
di una pura vergine bellezza.
Non altra aria ebbe senso
e quello era il tuo unico sole.
Non valse
più cortina di tenebre o di silenzio
umida sopra le tue zolle che la terra
mobile percorre o quella già son io.
Un frutto era nel bosco verde amaro
come un dissapore che più non riconosco,
un luogo avaro lugubre a metà da dove
non si giunge più al tuo sonno
o in altro luogo.
Se mi divido
e mi spartisco per ombre e nebbie
nel cammino dove s’intralcia
permanentemente semplice la memoria
o ti indico uno spiraglio di uno specchio
che ha avuto più sapore d’una voce
legata ad un tuo fermaglio; non tu certamente
avevi un grido gelido alle spalle
come quello che si muove lento
da cose non semplici e non nuove
come suoni assidui acerbi
già accaduti e ritrovati altrove.
Adesso vieni con numeri esatti
di aria a tutte le ore.
Mai capelli folti,
castani; assidua è la tua sete intensa
dell’amore; ma quando da obliati dubbi
ed eventi si rabbuiano lente le tue ore,
so che mai bianchezza di neve ebbe più pallido
il volto dentro il tuo illuminato dal più fievole
sorriso del tuo sole.
Assidua la costanza ombrosa dei boschi
una sostanza sempre più prossima
all’amore, vaporosa in te ora diviene.
In una triste ora tu sei in disparte.
Qualcheduno e qualcosa in confuso
come nastri d’inchiostro verso te nudi
ora si versano. La capricciosità è solo
dappresso. In due sulle tue labbra
sulle tue frasi ignude è solo ora il mistero,
come quello di una rondine battuta nel suo volo,
che non riconosce più, più non riordina
se sola già in se stessa.
In erranti canti un usignolo
aereo triste ora si versa
sulla sommità di un albero
o una tomba a sé stessa affine
sempre più pura lieve e diversa.
Se le mie parole più non bastano
la tua voce è nuda e più non riconosco.
Un largo grave era sulla semplice
luce delle strade nella tua luce nuova
di essere soave.
Di un bassorilievo tu sei paga
come dell’oscura e fragile necessità di vivere
alla luce tremante di un raggio
della luna discesa a te per nuovo incanto.
Mi rimerito un castigo per me solo
nella nuda voce tremula che trasse
dal letargo te, sul fango, dov’eri costretta
a vivere nella luce buia.
Lungo un canale era un silenzio.
Di neve era il desiderio delle tue promesse
in una alternante, vacillante sete.
Se desidero qualcosa delle accecanti mete
ora non dico anch’io.
Non mi pare sforzo bastante
gustato invano guastato dal tuo tempo
umido.
Sempre più fertile, più intenso
era parere più povero chi dentro se stesso
in te, di te si risovviene ed ha gustato
follemente nelle sue carezze
internamente la dolcezza delle tue promesse.
Quando ne l’ineluttabile chiarezza
del giorno qualcosa era così gentile,
come un passo venuto meno
ora da altro confine, internamente
di te riodo e non so quanto,
o molto o poco sia, tempo mi fu concesso:
di starti accanto
di esserti così prossimo e vicino.
Se rievoco ricordo cos’era.
Naufragano così poco casti i pensieri.
Quel che era s’addensa nel buio
delle colline. Ma non basta poca pena
che con pace ho diviso, di là dai boschi
dei morti più veri dei vivi.
Se aleggia un ritorno ai muti confini
è un desiderio di neve sui viali
sui giusti sentieri. Più adorno
non veduto da alcuno è il tuo viso nel nulla.
Quel che chiedi non è di oggi o di ieri.
Mi riaggomitolo nei consumati giorni
più secco e felice di non essere
qui o là più per sempre che altrove.
Di rimando ho misurato uno sguardo
sempre presago, ho mirato quel che chiedi
o che vedi. Odo sempre quel che opacamente
con cura ti giunge. Ha mutato luogo
un’erma linea veloce di faggi.
Se da una cima
di pensieri si sfugge, mi fingo
a metà aria a metà rovo.
Così elementarmente
semplice il tuo viso ritrovo, quel tuo giuoco
così vivo così giusto in un grido
ai confini del viso di un povero.
Non era più aereo, fuggente o risorgente maggio.
Attonite onde erano sole su le linee già indifese,
un aspro raggio o gelido uno spiraglio.
Uno scheletro era apparso al quale tu gridi
o inclini.
In giuochi lenti dissapori
salgono diafani, e se più non mi incammino
non è più a piccoli piani passi.
Erma
risplende la nudità de la tua morte
su la sommità aerea de le cime.
Se beltà anche oggi si piega
non più felice, non più è una sera
lentamente non nuova e con cura piana
si lega dove più lieve la leggerezza
tenue nascente era dell’ora.
Non vale più a altro senso
che il nuovo colore disperso nell’azzurro,
nel deserto o nell’immenso.
In altro luogo
una linea rinascente era tutta indifesa
già nel bosco.
Tutto manca
dove una dolcezza sia tutta bianca
e lentamente se stessa non conosca.
Nella lentezza la sommità tutta grigia
era già dell’aria. La tristezza non era vera
se il disegno del tuo corpo non s’infrange
nel tuo sogno.
Una bellezza luminosa
fragorosa intatta del tuo viso
nel tuo opprimente con te con ordine
discende.
Qualcosa sorprende
che lietamente, lentamente scivola e ti guarda
fino a che accanto a sé
la tua vita che fu quieta
sé in se stessa non conosca.
Se i moniti sono solidi
o sono solenni i colori,
ecco perché rimiro, povero,
anch’io così poco con gloria
alberi stanchi e i segni
dell’altrui dolore.
Nidi di rondini
sono leggeri nel tuo sonno.
Il guanciale
è sgualcito come la musica lontana,
così spesso, poco saggiamente adombra.
Non vale vena ricavata dal suo pianto
se sono costretto a più non pronunziare
un tuo lento addio.
Dentro una ventata
d’aria calda varia,
dimessa, già dietro un vetro,
sono felice anch’io.
La fine è rapida
alla fine d’una mia giornata.
Una curva vena
aerea risoluta insolita alle sue radici
è roseo mormorio di pendici estreme
nelle quali sempre vivi.
Una mano non più mia
è liquefatta, come sento,
e bene se qualcosa unitamente manca,
o erano meno esatte le parole che tu dici.
Lievemente è sulle vene glauca una stanchezza bianca.
Il dolore fu simile a una guancia
nell’aria vana tenue simile e stormente
e perché una gota non s’ingemma più
di un volubile, volatile tuo segno.
Ad un bacio
una folata aerea che t’investe,
labile così com’era giusta
alla fine di un disegno la tua sete,
era la tua fede vera nella fede che ti salva
giunta alla sommità di un albero;
e le chiome sue e le radici
vanamente apparvero.
Se di vetro il tuo viso
al collo si congiunge, una luce
che non vedo non è più sulla tua guancia.
Dormi! Non così fitto è il sonno
se già il sogno ti raggiunge. È passato
tutto l’anno. Una stagione
inclemente risospinge il tuo viso
che fu sì povero nel fango. Forse
abbracciato ad una vita che fu tutta diversa
si ritrasse, chi, alla sua sete lunga nel bel tempo,
ombra luminosa dal letargo
ti chiamava.
Non mi risovviene
né mi risovvenne più del tuo corpo
né del corpo nei tuoi occhi
limpidi d’inverno. Da siepi
e colli un fiato chiaro chiamo
da una timida distanza.
Se collo sguardo morente
rifuggo anche oggi dalla tenuità
sognante di una sfera, essa era già glauca vasca vera.
Non mi ricordo più di te preso dall’interno
e un nome non riodo più
che ripido discese a chi fu sì povero
e la sua povertà era tenera
e languente.
A somma nudità dell’essere
ora puoi rispondere.
La verità dell’ora
si concede ed è pago chi dentro una verde vela
giusta una verde ombra vede. Opaca
sfugge una vetta dal cielo che si serra
in un punto di un poro opaco. Sopraggiunge
nei verdi intrichi dei boschi
quella per cui non sapevo più esserle accanto
solo ed esclusivamente.
Erano fischi lugubri di treni in partenza
presso l’immagine dei fiumi
o sulla mano entro la quale il sogno
non più avviene.
Sapevo di una scarlatta
vicenda, di un letto a fianco fuori del suo posto
o fuori anche di mano. Sapevo anche
quanto poteva essere un suono, un canto
casto, canto lento; e se sonora
la sua legge sfugge da se stessa,
era quanto la sua piegata effige
dall’altrui figura corre sempre
erma più lontano.
Naufraghi erano i gridi, i colori. Matasse
di nuvole sole si consumano fino al loro
nuovo rifarsi nel raggio nuovo del sole.
Sereno nel viso era scialbo il colore,
accanto era accecante l’albore.
Domani è un cruccio che non sa di nulla
perché più addentro era un uomo
che non sa d’altro, se non del suo passo
del suo poco peso dentro un colore
come era una volta quello d’un povero.
Confuso ai fantasmi con altro dire
un altro uomo s’affaccia e l’avanza.
Ma perché una stessa cosa
non poteva essere così priva,
così povera due volte d’amore
una nuvola su l’orizzonte sfilaccia
altro sogno che non aveva più segni
cui lieve si agogni.
Rivolta una donna ad un’altra
non era questa che una confusa rimembranza.
Due volte che sfumi, se era una lontananza
magica, un riso tenue era anche di lumi.
Perché un povero cuore
non poteva dire sì due volte
e non si ebbe più che una pietra
che simulava la speranza, l’infingardo
volto delle cose un riso aveva simile
al rapido suo sguardo che invecchiava.
Un volto era tagliente
lucido nel sole.
Sperduto era anche un nome
e non si ebbe più chi lo chiamasse
in un dolce lume.
Dolce era una titubanza
pallida e severa era e con essa la regione boschiva
languida pure che si duole
su una guancia.
Guarda di là.
Vedi chi ti veniva incontro con gioia fuggitiva.
Il volto era un chiaro lume del sole e il sonno
non più riletto e stanco era il suo nome.
Dolcemente naufrago con esso sul fiore giusto
deliberatamente pago un filo
tagliente era e dentro in un grembo pallido l’amore.
So che non vale a nulla il vento
che più non approda dove è la tua voce nuova.
Simile a quella che accaduta dentro un astro
nella veloce notte era nella sua forma pura
la sua veste magica caduta
dalle mani dell’oblio veloce
nella tua sete intensa.
Così era simile ed esigua
nella sua luce la voce dell’amore.
Medico e poeta, lettore attento e appassionato di filosofia e di cultura medico-scientifica, ultimo esponente di una tradizione intellettuale calabrese segnata dallo stigma di un solitario lavoro della penna e della mente (che verrebbe addirittura di riportare al remoto esempio di Tommaso Campanella), estraneo per vocazione e per reciproca repulsione a ogni forma di societas letteraria, Lorenzo Calogero nacque e per la più gran parte della sua vita visse appartato a Melicuccà, un paesino della provincia di Reggio Calabria.
Studiò ingegneria e poi medicina a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica in Calabria, quindi in provincia di Siena fino al 1955, dedicandosi intanto con crescente impegno agli studi di filosofia e di letteratura, e pubblicando a proprie spese alcune raccolte di versi che non ebbero allora circolazione né eco: 16 poesie, nell’antologia Dieci poeti (Centauro, Milano 1935), Poco suono (Centauro, Milano 1936), Ma questo… (Maia, Siena 1955), Parole del tempo (Maia, Siena 1956). Tentò di stabilire contatti con poeti, riviste ed editori importanti (Betocchi e Bargellini, «Il Frontespizio», la casa editrice Einaudi), ma senza successo, e tuttavia assumendo sempre più – dopo il definitivo abbandono della professione – il proprio lavoro di scrittura come un destino e come una vocazione assoluta. Ottenne a partire dal 1955 l’appoggio e l’amicizia di Leonardo Sinisgalli, che provò a promuoverlo e a valorizzarne l’opera, con una bella prefazione alla raccolta Come in dittici (Maia, Siena 1956), e con la segnalazione al premio «Villa San Giovanni», che gli venne assegnato nel 1957.
Morì solo, in circostanze mai definitivamente chiarite, nella casetta di Melicuccà, tra il 22 e il 25 marzo 1961.
Con la pubblicazione di alcune poesie sull’«Europa letteraria» di Giancarlo Vigorelli, nell’aprile 1961, a pochi giorni dalla tragica scomparsa dell’autore, e poi con l’iniziativa editoriale di Roberto Lerici, che curò con Giuseppe Tedeschi due bei volumi postumi di Opere poetiche (1962 e 1966), comprendenti raccolte edite e stralci degli emozionanti inediti dei Quaderni di Villa Nuccia, quello di Calogero cominciò a proporsi come un caso letterario meritevole di più generosa e coraggiosa considerazione. I volumi lericiani andarono esauriti in breve tempo, ma per il fallimento dell’editore un terzo volume già progettato non fu più dato alle stampe, e a seguito di ciò l’intera opera del poeta fu di nuovo come risucchiata nel nulla, rimanendo inaccessibile alla conoscenza degli studiosi e dei lettori per quasi mezzo secolo.
La disponibilità pubblica finalmente acquisita dei suoi ottocento e più quaderni manoscritti, in gran parte inediti, sta aprendo ora una nuova stagione di riconoscimento e di valorizzazione. La sua voce arcana e potente, tesa in uno sforzo assiduo e coerente di reinvenzione del linguaggio poetico, oltre i miti della parola e fuori da ogni compromesso con la pratica dell’uso e della manipolazione, può essere finalmente riascoltata dalla lunga distanza, con una sua precisa e forse accresciuta forza di suggestione.
Se i giorni sono profughi
non è inoltrata una distanza
quale tu dici. Una maniera
era sola e calcolata nella solitudine
dolente. Una vertebra che tenevi
non era un più o un meno
che per tuo giuoco avevi dentro
con certezza nella mano disegnata.
Non voglio fidarmi più di te
o di me che so e posso
e voglio tante cose
ad un volubile tuo cenno
nel senso delle rose.
Un’orma era forse abbracciata
a un albero: era così viva, solerte
e schiva come l’eco che rimbomba
sulle rocce; sulle rocce così ferme
inflessibili e corrose dalle plenitudini
che rimirano dalle altitudini
solo l’altrui dolore.
Un canto
era vago in trasparenza.
So di cosa in cosa
ciò che novellamente amo.
S’accende il sole sopra il colle
nella solitudine morente.
La vita era altra e ben altra
volubile vicenda era una tua stessa attesa.
Qualcosa ai margini dei sogni,
che con te me pure prese
mesta ora si salva dolcemente.
Per puro caso si dondola nel folto.
Non so quali albe gementi o accese
ebbero giardini in dono
e perché da te si ebbe un puro passo
dentro un puro senso in moto.
Sono pesanti e gravide le ore
tue, ora, tristi e vuote ai margini
ai confini delle cose.
Decaduto ogni giorno
non udrò più un vero viso denso,
un albero mai vero.
Che diranno questi alberi
che soli intercettano dentro un’umile
piega l’ultima sillaba del giorno
o sono essi forse appena un ultimo
estremo suo saluto?
L’umile erba cresce a stento,
così strani amori propone come prima
mai veduto avevo nascere
e soli poi accrescersi.
A morire costretta
come un frutto maturo la terra
nel suo letto era lenta
già acerba.
Se fuori fossi io
sarebbe una novella salsedine
dentro una pinguedine ricca e asciutta
che dal mare non viene.
La sera febbrile e paziente
era certa di sé, discesa
dal suo transito ultimo
felice che in se stesso si serra.
Querula piegata in disparte
era una morbida guancia,
quando da una rinuncia
o da una nuova nascita si lega
solennemente triste alla memoria
la sete dell’aria, solennemente affine,
perché ancora si sogna,
ed una nuova bilancia nuda
appare dentro un’ala che è bianca.
Perché non ho più nulla
e nulla poteva più essere
soffro lievemente con tristezza la morte.
O colpisce me lentamente oggi
una lancia?
Non vale gioia densa o silenzio
vegetale in questo va e viene, in questo
murmure di onde silenzioso
sulla ghiaia, nei vaghi schermi
di una conca che poteva più non essere;
e perché una gioia non si rischiara
più due volte, forse, purché silentemente
aggiorni, una marea conclusa
era di baci.
Pervinche trovate a caso
erano in lievi selve. Forse non più se ombre
erano esatte. Un brivido gelido
riconduce le lacustri foglie
dalla loro ombra alla celeste
luce, che vivida riaccende
sulla cima immota di una bontà conclusa
coi tristi inganni i tuoi giorni poveri.
Forse da autunnali chiome
il vento impetuoso si ridesta che sai
che era nulla nell’alba.
Ascoltavo
il primo tuo giorno al primo venir meno
di esso secco sul labbro che era tuo.
Panico
o paniere avevi nella mano
ma non duravano più come un pensiero.
Scolpito era nelle vene il tuo cielo,
il succo del secco sopito vago tuo incedere.
Ti siedi fra noi e sorridi; ma ora
è la piccola sfera di più di un anno
che ti rimanda alla rinfusa a quanto
leggera sai confusa in ogni tua parola.
Gli istanti
sono distanti, infermi.
Non hai valutato
la presenza delle labbra tue carnose:
sono esse un raggio diffuso e soffice,
leggero che sale dalle valli
alle vene delle tue voglie vane, nelle veglie
tue che non si sono mosse su le foglie
o non furono giammai.
Valanga di nuvole
folli sono le tue fughe, le rose rosse e oscure
nelle mani chiuse tue che più non hai.
In questa sera in cui s’accendono foglie
carnose e, quando intirizzita
è già pure l’ombra, o è una schiera
che risillaba forte o recentemente
è amore.
Come nel flutto il vortice
si concede e ti commuove, tutta ti stringe
e a volte ti lega nel roseo cammino
che fai per le tue valli.
Sono soglie o è il contenuto di esse.
Sopra tegole rosse si squarcia roseo
bagliore leggero il sonno
o appena esso è il benvenuto.
S’accende
fra fiori il rosso incarnato
cupo freddo dei tramonti.
Labile una presenza non vera
si muta con gioia in questo
quadrato stabile di aerea angoscia
in cui per te la sua voce
mite è il suo sonno o l’aurora.
Sento nei lenti segni l’incarnato a le tue parole.
Ebbero elleno nella sera il tuo pianto.
So che non bisbigli erano sui frassini:
striduli erano e fragili le voci d’un passero
e se si bisbigliò d’amore, questo era quanto
di più stucchevole era ne la tua natura.
Della sagoma bruna mutata rossastra
dei monti non dico. Forse si passò con gloria
al dimentico inno che fu della gioia
o al suono, a sommo, del sonno esatto
che fu sulla guancia o ben altro che tu sai.
Lascive e sole erano isole al sole dove tu vai.
Il tuo incanto nel mattino freddo
in questo nastro ch’era d’inchiostro,
per te era certo sempre nelle brumastre
serate ch’erano d’inverno.
E poiché elleno ebbero vera pace
nella vita dei mattini freddi
non era più acuta più viva di un sasso,
attendendoti ebbra, la gioia che sillabava
fra i denti vivi sul tuo labbro.
O una smorfia pietosa era,
una storia d’amore a me accanto
di te già bisbigliava.
Né vale più riposo.
Nel mio letto gustavo come nei tuoi occhi
erano veri i tuoi lineamenti finti.
Lentamente fuoco s’avviva
e ciecamente così rapido ti sorprende.
Ben altro altri sapevano di te o sapevano
solo d’un tuo triste inganno.
Spento era il canto nelle notturne
vene delle ore lente del tuo sonno.
So quanto s’impara nella stessa attesa
e se appannavo un poco il sonno
e quanto strappavo come efelide
leggera da una gota su una riva,
non era opacamente felice di sorprenderti
un tuo sogno cui tristemente
più non ritornavo.
Non era poco
e non so che gioia vana era e più il dolore
quando una vena d’aria chiara
era nei clementi occhi tuoi il colore.
Sono moniti gli accenti
che più non rivivo.
Quando sei seduta
dentro un piccolo cristallo che ti rimanda
una luce smorta in te già decaduta,
non so quale sia più un grido d’erba
tenera che vie più s’accende.
Una mano ti si porge
che violentemente saluta
e strappa te timida solo a te stessa
di rimando.
Lugubri magie sono le tue parole
e le mie con esse, se in luoghi
scabri fra le cose, aerea risorge
tinnente e fragile una voce,
che silentemente attanaglia
le prede su le prode.
Rudi scarni silenzi abbandonati
fra le canne premono il tuo corpo
nudo come se fossi tu caduta
alla neve accanto.
E perché gioia possano avere altri
ora stai a vedere. Glauca
e rotonda preme la luna
la tua faccia rotonda e bruna,
una città scomparsa
sconosciuta di ossa
e la mano tua con furia.
E perché disperata
una distesa occorre con pace sempre
ora non so più nulla.
Più languide erano ed umide le tue labbra
nel tuo corpo avviluppato.
La verità comprende più dolcemente
e lievemente le cose. Inversamente
non si duole per non credere come vivida
e tremula non fosse più la luce del suo sole
in un silenzio suo ch’era di rose.
Albicanti righe erano e strane.
Un pensiero erra remoto o era altrove.
Un contadino numerò i cipressi
venuti da altri monti lontani.
Un pallido rinvio delle tue labbra pallide
alle tue mani ora si muove.
Per questo
quanto era, con forza vera, un duttile segno
di neve, un nodo confuso
ora diviene.
Scarno saliva un lume
da altre distanze, perché un sogno,
non più profugo, era quello che ti lambiva.
Altre tristezze abbracciate erano alle lagrime
e chi aveva di te in sé vago un suo disegno
dall’orizzonte tremulo pianse
vivamente presso una riva
pensando alle sue cose.
Ogni minuscolo attimo dell’esistenza
non più proclive alla distanza
per un modo nuovo di essere
poneva esigua una differenza rapida
celeste al dolore umano.
Così ho consigliato per giuoco
chi poteva essere albero.
E non giudicarmi
se vidi anche una schiera o per non più rispondere
mi sono inoltrato, ove una pura vena,
nel fermo fuoco, era già vera.
Un freddo bagliore d’aria
gli occhi corrose.
Chi era tagliente angelo
bisbigliava forse oppure con se stesso
dorme.
Non giudicarmi
quando sono contro vetrate glabre
o sono solo sulla nuda siepe
o sulle chiome di alberi e le orme.
Non più opprimermi se fu vano
un giuoco della libertà solerte
o essa fu vana e timida al tuo fianco.
Se qualcuno sbagliava, così triste
la notte arida non era, e qualcuno
dentro l’aria stellata si liberava.
Dorme ora il muto gregge
o la lattescente spiga che ti piace.
Nella tua mano era
il modo di non vivere o di vivere di meno,
porgere quel ch’era giuoco al tuo sonno,
suono diafano all’ora d’un bosco
od occiduo e lontanamente triste inganno
se nell’aria giusta ti svegli.
Poteva pure essere calcolato
un occulto modo di essere così lento
in ogni muscolo contratto, come il ritmo
del cadere delle veloci messi
del grano o il tono della voce
ch’era sulle trecce delle rocce
protesa verso una stella
o una luna che intravedeva
solo se stessa.
Quando mi maraviglio o ancora
sbadiglio (non era pietoso ritmo più
e più non mi contraddico)
sangue vermiglio era allo specchio
del tuo ginocchio, nel mattino
che si sporse ombra opaca solo all’orecchio,
e qualcuno era una densa spiga,
cui quando ritrovo me stesso mi rassomiglio.
Ma se una diafana corrente più non odo
nel lento discendere d’un lontano muto gregge
nel giorno tuo glaciale non so chi con pena
fu con me sì mite.
Rinasco nell’onda che rinasce
e fugge.
Io stesso corroso
dalla vetta alta dei monti non so riconoscere
chi non ha più corpo.
Ne aveva uno
più biondo o mosso e soave il bosco
o nella sua piena veloce il fiume.
Nella valle un frutto era aereo denso carnoso e pieno.
Ma tu non dubitare più del mio disegno.
Al caldo geme la vite, dentro la pioggia un raggio.
Era una struttura che più non riconosco
quando la vedo dileguare.
Un attimo si spegne.
Una vita
sopra la neve cade.
Non vede rauche
arse le vette del colle chi non sa che argini
nell’uragano erano ed anche oggi arido un ricordo
o rorido, più puro, esangue.
Forse amarulente onde con gioia,
con pena erano.
Il canto inoltrato
ella vede, come un dì rinasceva
il flutto lento della sua materia,
la polvere ignuda lenta di giugno,
una fonte elastica alla sua sorgiva
e dalla pelle acre il frutto che ora s’ignora:
odora esso così labile
pallido, cieco non più risorgente.
Non vale una mano se pallida
com’eco era ti dico. Tersa ne la sua struttura
la guancia gelida, com’era una volta la tua
tesa su quella tersa che fu di un amico.
Ritorna il lattescente odore di cose,
il gruppo magico di una sorgente antica.
In ogni pena alla tua pena accanto
più non rivedo come fu pallido il frutto,
l’albore, l’alone, il dolore di se stesso
e come fu strana, strenua, stanca la tua poesia
quella di un giorno che è ora solo quella di adesso
e almeno una volta, nel suo giuoco,
ti fu benigna e amica.
Ora so. Poteva pure non essere
diversamente lungo la tua strada
senza fine, per ordine d’un tuo tempo
antico. Prendi ora senza scopo
la strada che tacita l’avanza.
Infine
non è più accurata l’arcuata volta
dell’azzurro cielo nel silenzio
proprio del suo confine,
ove labile un tuo disegno ch’era schiuma
la chioma era già di un altro
nel mistero non più tuo,
che non più dico.
Forse perché volubile
questo modo di essere un silenzio
aveva oltre quello che aveva la vita
la primavera che viene ora già odo
lieve sul tuo merletto
come altro silenzio non era non detto.
Non altra pace era vera che la medesima
origene di un mondo remoto
indifeso sulle labbra tue chiuse
dentro un disegno o un mistero.
L’euritmia ha un orecchio teso
sensibile sopra le acque che scopre in te simile
dopo la mezzanotte solo se stesso.
Il fiato era molle.
T’investe il nevischio che invetra
la tua pallida faccia dopo la facciata
aerea triste del colle fatta ormai in fretta
una triste sassata.
Ma non dirmi
mai quello che veramente non ho mai fatto.
Una risposta
era pronta in un medesimo punto,
in un punto odoroso che passa
come l’ombra non mia (ondosa una pausa
era come un desiderio già teso
sul suo medesimo lato).
Quanto era vero
era in te già calcolato.
Non mi piace intendere
ciò che dissimile e liscio
scivolava con pace teso all’orecchio,
e poiché un dissidio era da te colmato,
un desiderio si annunziava.
Acuminata dentro un’unghia
con gioia era una pace non vera.
Era con tanto incedere di passi tuoi
ed ordine una vasca una sera.
Ma se si sgualciva il tuo pianto,
una vena era rosea,
glauca all’aspetto una rosa vera già era.
Sento capricciosi eventi
e con ordine un va e viene
in questi squallidi
umili orizzonti, dove, forse, non so
più quali nuove prove gioie più non erano
e, certamente, non erano d’amore.
Un desiderio s’accende e così bene.
E perché una curva non era più sognata
e più non era che un novello cedere,
ora provo il mio nel tuo nome esatto
o quello dell’alba già discesa.
L’alba era un tuo vero nome
o quella tuo d’un povero, nell’aria bassa
che si stringe con novella gloria
com’eco pallida alla bava,
al solleone, di una larva.
Ma non ti accomiatare così triste da me.
So cose, so rose, so un novello nome.
Verso essi si stringe eco pallida il tuo labbro
ad un senso tuo veloce.
Non so intenerirmi
solo più con me, verso me solo stesso.
Vergine e distesa tu potevi tutto ricoprire.
Tutto riverso sono dentro un mio pensiero.
Frainteso candido frutto lieve è già un baleno
o nei lontani termini del cielo, cieco
dentro di me non so più dirti
addio.
La pietà come in tenui arbusti,
steli sterili, tenui, dormenti bisbiglia
gelata e comprende molte cose
a partire già da esse.
La fatuità
leviga come strani gridi le foglie
su le tue dita stesse.
Il non aver pietà
più che di se stesso (riconosco un grido
sfuggito solo adesso) era se come
tutto polvere e cenere diviene.
La falsità dell’ora nella mattina
grigia non aveva aspetto:
fosse questo o quello tu solamente
potevi trattenere riconoscendone un difetto.
Amalgame rosee furono pesanti.
Ora tutto era di puro vetro
e non so accompagnarmi ai soliti passanti
lievi che oscillavano sui tuoi lievi passi.
Distanti erano l’uno da l’altro;
e da se stessi sempre indietro.
Come il flauto d’un flutto o il flutto dentro un flauto
era la fine canora ancora alla fine tua d’un anno,
in cui per la solidarietà di se stessa
coll’aria esatta, nitidamente
precoce, nella nudità tua e di quella dell’inverno
di me solo ti dico e solo già ti attendo
nell’ora tua lieve ai cui passi tuoi leggeri
e ignudi io mi addormento.
Non era più solamente levigatezza
piena di trecce morbide
la scintilla che avevo presso dai tuoi occhi poveri:
accanto era a me la tua vita stessa,
un riflesso pallido di un tenero tuo passo
che riconosco solo adesso.
A prova non più erano i tuoi capelli
profusi nella mano.
Tu potevi addormentarmi.
Una scintilla, un più o un meno
di un carnoso fiore erano taciti, appunto,
da soli a te accanto per solitario incanto in un viaggio.
Se a tarda ora era arida
una pupilla, forse sognava la puerile
la sorgente tua grazia
trattenendo sé stessa sempre
dentro una pura vena di onde
presso uno che ti consiglia.
Non erano artefatti i giorni.
Nella mattina fredda
si levigarono intatti i sogni nel tuo moto.
La strana origene era sempre indifesa
dei fiori nel loro senso del colorito pallido.
Perduta tu eri così presto e sì bene su una via
come presso una riva o altrove
era un tenero tuo bacio.
Se qualcosa taccio
non era più un torrido fiore
di cui artefice da solo già mi faccio;
o era un modo azzurro di essere
che languiva sempre in sé stesso, sempre solo,
vagando intorno alla stessa vaga vena di onde
raccolta presso una conchiglia.
In segni sopra le mutate cose
lo smalto s’inclina e legge.
La medesima
avidità si rovina e fende.
Una colonna ch’era d’aria
a volte la rischiara.
Ma ecco non so più accorgermi.
Lenta dentro un gomitolo freddo
una mano era gelida e leggera
in risposta già del tuo labbro.
Intirizzita ed umida era la materia
ignuda dei fermi tuoi capelli.
Sgualcita nel pianto una guancia
una stella era che non conobbe mai l’aurora
nei più dolci celesti suoi momenti.
Rudimentali ombre sideree
un fitto moto rotondo non erano
mai più.
Imbiancavano la fitta
folta strada in occidentali vuoti,
esseri cui quelli che nella loro strada, man mano,
restavano indietro,
venivano più incontro.
Né mai essi conobbero il mio voto.
Perché accadrà crudelmente
talvolta (ma non ti accostare!)
la morte cadrà come un piccolo segno
o una piccola sposa in un punto scialbo
tenue stormente ad una persona risorta
o una promessa levità
ch’era un cristallo; e perché a te più non s’addice
nella salsedine della solitudine
dello spirito dipinto che ti circonda,
mutate le orme, la tua mano com’eco, ti dico,
rimiro lontano, perché più non mi sovviene
né so vivere diviso o diverso da te.
Ora ti puoi sedere
e, se osi, camminare in un prato,
virginee forme rispunteranno le stelle.
Su sabbie faticose o nebbie finte feste piccole sono di un ballo.
Su le tue labbra arse e secche
una città è tenue, puramente languente.
Sono estinti i rumori delle foreste dal lobulo
al vestibolo del tuo orecchio.
Non ti perdere
più per pudore, perché piccole idee,
se vuoi, come un talismano puoi possedere.
Le città del monte sono già avare
nelle loro origini, nella loro quiete
e tu, prima di sera, nella solitudine
che sarà di ritorno, inglobata sarai
percossa sempre dentro una sfera.
Quando i monti sono rapide scintille
e i prati pure, tu nella lenta
scaturigine quieta della sera
ti fermi, oppure hai in lagrime
a ridosso le tue vesti. Un fiato già ti opprime.
Miriadi di faville sono dentro un vetro il bosco,
o solo accanto nel ricordo.
Ma, vedi, sulla solitudine
delle onde e delle strade, passo dietro passo,
(per non parlare più di te) si sono mosse
le solitudini dei monti nelle cime e già le acque.
Fu quieta
e lenta la tua origene. Una rinascita
appariva piena di ricordi e di riguardi.
Se uno era già vero
una coccarda fu una medaglia.
Chi aveva un ritmo indifeso
ti ricorda sempre e soavemente
e dopo le ore lunghe e lente del riposo dentro un’unghia
nelle ore lievi e brevi del tuo tempo.
Se al largo vai
la melodiosità di eventi
vana fu dentro una conca
una dolcezza rara.
Diritta cogli occhi degli angeli tu stai.
Ora ricordo anch’io e se m’interroghi
e rintocchi odo di campana
non so se era il novello distendersi
del tuo giorno (acqua scorreva dentro
in un limpido ruscello).
Il non essere
e l’essere erano suono. Da volatili fronde
si stampava l’orma. Sopra il mare appariva un lampo.
Un bacio era un fringuello che più non mi fu dato
di riconoscere: se fine era
o parte vera già era o gioia o fine di se stesso.
E perché mi piacque sempre
il tuo viso attorno e perché scabre
erano al cuore le tue parole,
un monile era rappreso
e scintillava soavemente.
Volli difendermi dal tuo cuore inerte.
Sopra un tappeto grigio e verde
ti avevo tanto attesa e non volli più rispondere
a qualcuno che tu già sapevi.
Tanto tardo
era un mattino freddo, quanto dal nucleo delle cose
era disceso. Così mi modulo anch’io.
La gamma della vena giusta nel sospiro
glaciale era dei monti. Ora non voglio
mordermi. Il fumo gira come un girasole
e tu eri sola ad attardarti
per attendermi dentro una vana selva
nella glauca nudità azzurrale
che non più si salva, perché di te schiva
era la gioia nell’ebbrezza e la bellezza.
Vai trattenendo il respiro
sulla vetta unica dei fiori.
Non sai quel canto
era separato pronto a tradirti. Pure
una secchezza era l’albero segnato.
Un ritmo era cieco, era così fremente
così fievolmente inerte,
inavvertitamente esatto denso a smarrirti.
Tu potevi non chiamarmi. Ora vieni.
Sono le nude vene che ti dettero
un travaglio antichissimo, e sono le mani
dure e piene che contengono un desiderio.
Quando dai corpi nostri un lago
bluastro od i fragili o del mare, pinnacoli
erano una luce d’albero e tolsero
da una vetta d’alabastro un nome
cui non sai più pensare.
Si toglie senso al cielo d’una vetta.
Per esso che viene all’improvviso
nudo non era quel che resta.
Non era sangue più del nostro sangue
il mormorio odoroso del tuo viso.
Non era beltà da non riconoscere
se stessa, vergine e fraintesa,
molto lontano, da qualcuno che non ritorna indietro,
nella luce rosea e rossa, smossa, in un tremito, al tramonto
in un’ora come questa che è imprecisa.
Al tuo labbro
camuffata era così una luna che si dondola,
una linea veloce ed umida,
nuda e muta sempre ed unita a volte.
Nella pruina riconosci te stessa sempre incerta
sopra una rapida tempesta;
e perché i sicomori erano per aprirsi
non chiedo più di te che qualcosa oggi: un oggetto
umile, dentro esso il mio, un cieco acquario
in sé sempre trepido a smarrirsi
ed umile com’era la gioia tua nella tua gloria,
che è l’annunzio che ci fa tiepidi
stasera; e non più altro ell’era
di quanto era vero e che ella già ignorava
della sua cupa storia.
Sebbene le tumide parole già da un anno
non erano quelle più a ridirsi e adesso posso
muovermi su molte cose, nessuno
sa che sia: se era addentrarsi
nel fondo umido di un poro
o volatile era ombra cara amica
o se per un caso di quel che non posso
più comprendere, ombra anticamente
era di sé solo tacita, indifesa.
Forse l’annuncio vano delle parole
ci farà stasera accanto e non sono
amalgama di boschi già le prode
dove sopra un marmo t’attardi
oppure siedi.
Non sono più frammenti
i lineamenti puri delle cose
come persone deste e vive oppure morte.
Mano a mano
erano alberelli che nascondono
umidi i tuoi begli occhi freddi.
Sui prati
ai tuoi piedi freddi non so più vivere.
Echi sulle città si spandono
dal tuo labbro pallide.
Embrici vedi
e poi qualcosa accanto
che si regola sui tetti
del color della viola pallida o bluastro.
Non so quali siano più le voglie
per le quali tu rivivi.
Tacite erano esse
le foglie del nostro nome. Erano forse il nome
del nostro amore o del nostro cieco incanto
di cui da anni siamo privi.
Non so quali siano le più sperdute
e cieche rive del nostro incontro.
Qualcuna si staglia
qualche altra va squallida a ritroso
o plumbea.
Gelida da non più ridirsi
è ogni tua parola.
Ma perché sempre non sia
sopra le origini, indifeso nel suo tempo, s’ascolta a monte
l’umile orizzonte e, bene intesa,
riflessa è la tua morte.
Bene o male non so quale sviluppo
sia dei corpi nostri o vivi o morti
in un gruppo magico, in un modo
che si rinnova più alla luce.
Tu eri glaciale
alla luna tagliente del suo tempo,
nel freddo sereno sempre intenso
sempre uguale.
O si rinnova
la prova del successo o l’avvenire
non è più nostro; non è più un modo
o è un modo rapido irriflesso.
Un punto, una sagoma alata erano
com’erano vane le promesse e, se mi ricordo
di te ne l’alba dei sentieri, non ricordo
più così bene come scendeva accanto a te
tanta ombra densa di pensieri, se desiderio
o sogno erano vaghe cose e la nebbia era pure
calcolata con amore o già era insuccesso.
Una gioia s’accende su le labbra.
Tu eri in sogno simile al suo vero, quando
da l’umiltà de le sue stesse cose un più o un meno
eri una goccia gentile appena giunta al suo successo,
e si fende in margine un tuo nuovo senso. Una scintilla
era pura che si fermi.
Non mai il mio riso mi raccolse o amore
e non bruciò nel cuore
con mano esile e pia
chi non conobbe il batticuore
che lo trasse a una riva
così dolente.
Il fiore, il frutto carnoso
delle ambagi arsero vivi
nelle vene dell’altrui dolore.
A te di sterminati
augelli un fiocco era d’amore.
Una simile festa
non era più per l’altrui colore.
Remoti ammonimenti,
comunque, una riva d’alberi
fissa, su densi argentei capelli trassero,
quando da vivo ora ti guardo e da un senso
non più mio (ora è di tanti)
una solitudine clemente.
È permanentemente vero quanto sai
è perché rosei ondeggino fermamente ai balconi
(vedi, son nere piagge acquatiche
e non più rigermogliano le lontane chiome)
fiori accanto cui tu siedi, è pure il vuoto.
Mi seggo anch’io, ma non l’ultimare
delle cose è strano, così tardivamente:
non so se era come più un nodo rude
o era di puro vetro fermo sui capelli.
Tristemente guardo e nude sono
o già ondeggiano le cose nel tuo sguardo
pur oggi rivolte come ieri altrove.
Esse adesso sono già in frantumi.
Non ti risovvenire
più di nulla dei ciechi boschi; chi s’attardava
era dentro una lieve culla in un barlume ch’era cieco
solo di notte sotto umili tende; e perché a tarda ora
non amava ardire tanto, cieca era una luna
coi pori falsi lievemente smossi
dentro i suoi lineamenti, leggera
tenera e stormente era la fatuità dell’ora
sulle orme delle strade, già deserte.
Nemmeno io posso ricordare.
Chi sé riesuma dentro un’antica legge
o è sopra un’amata aiuola, una sorgiva
che di sé sempre lo circonda
di sé anche ricorda sempre.
O era una vaga
canora immagine appena smossa
di una immagine boschiva della luna?
Come acqua cedua
mi riattempo nel tuo bosco,
ma non so nulla più di te.
Amorfo era campo
che più non ti circonda e, se mi sporgo
e non so più porgere, di te non odo troppo
come chi verso te propende
è solo in un gruppo atono remoto smorto
e attentamente.
Di te era forse tutto inutile
sottile leggermente attesa.
Era lugubremente ignota la tua sera,
nella parte delle tue piccole parole.
Lugubremente avaro era timido il tuo gregge
e la tua sete intensa nella parte tua del golfo amaro.
Se io so o non dimentico qualcosa
appena (mi conviene dimenticare,
perché nella vita mia perplesso
di te teneramente lambisco
una palpebra ignota e sono di te più dentro)
infrequentemente rude, come una ruga
o a strisce nelle vene tue carnose
implacabilmente attendo.
Perché da tenui parti
non so più che una stella sia vergine
o il frutto o non più ti lambisca,
la sete mia nel tuo letto o un tuo ritmo
non erano più cime abbaglianti di alberi
il tuo tutto.
Abbacinanti scheletri erano pure una folta tua schiera
e più non ardisco chiedermi una solida cosa,
non so più che sia vero o più indietro o già indarno.
Triste navigava od olezzava una foglia
su un ramo al tuo fianco. Querulo un tuo respiro
accanto al mio più non riposa.
Non erano gentili
purtroppo le tue parole al mio lato
e non so più a chi rassomiglia l’amore:
se non a te ch’eri vergine o sposa.
Avevano le ore una stagione uguale,
una voglia di essere lente, una regione proclive
e diafana, accanto a le tue ciglia,
dentro una sete ora carnosa.
Se savio mi ricompongo
e comprendo già di essere
non posso più in un diffuso
sortilegio essere un rossore
se non so se qualche cosa faccio.
Cortese era una mattina
acre dentro già uno specchio,
un piccolo talismano, e se ricordo
è da un pezzo che non riodo
dentro la sua sorte la tua sete.
Odi il mio nome oggi.
Era di pietra esso. Una cortina
di tenebre densa nel cielo
non salva più remota una morte
e neppure una lagrima.
Una gioia era lugubre
ed avara e casta.
Se di quando in quando
non so più il mio nome,
né come lento verso esso si versa,
pure si prepara,
né posso più comprenderti.
In un limite freddo dentro una sfera
con quel che fu compiuto
con altro nome, dentro un filo
di selva e salvia si salva
un altro bene o già era una bara.
Non mosse vene glauche più la pioggia.
Era a monte la morte.
Schermaglia
di nuvole folli rosee erano già canto amaro
dentro il tuo sole.
La vita chiomata, al largo, dei sogni
si spegne o sono le medesime oscure cose,
e perché nulla di te si spenga
può essere presso a te simile dentro la gioia
l’altrui dolore.
Non ti rimane
che il passo che non puoi più muovere
nell’attesa sempre ferma lugubre delle ombre,
il quale non più ricco, non più indifeso
non più riemerso, non più è caso
più cieco e soave dell’amore.
So non più diafano nero azzurro, da un pezzo,
a prezzo di quale liquore solo tu sai in te che sia, il tuo cuore
non più sazio non più cieco si risommerge
in una piega ritrovata altrove
e così bene.
Com’eco ti dico te stesso
sorregge i tuoi primi passi muove
la scorza che fu tua, il tuo primo premio
un’anima come una larva che fu il pernio
della tua natura nelle prime nozze.
Verrai domani con me
con le nuove tue penne o non verrai mai
più senza essere atteso nel tuo tempo.
Il tempo è acuto,
crudo lo scampo che il lampo
dei tuoi miti occhi teneri contenne,
o non puoi sapere dei morti
o dei vivi o di me o come acuta
la pioggia se stessa rovescia
e solo domani più non s’ode.
Era una lattescente spiga o un frutice ondoso
maturo e immerso già nell’onda cupa dell’aria
nel corpo tuo composito che dal tenero tuo sonno
nel tempo tuo acuto appare appena
e già si muove.
Son distici a catena e l’innegabile clemenza
tesa con calma, un passo magico aereo sviluppato
era già troppo ai confini, e quando
da la necessità delle ombre vien freddo
domani non saprai rispondere.
Con distaccabile
pena son fredde lievi fievoli zone
agli orizzonti.
Distesi distici
esemplari sono semplici e nudi su le sommità delle onde
quando apparenze non nuove riappaiono.
Si scindono
labili le conseguenze.
Pervinche
furono trovate a caso in lievi selve.
E se di te si trae qualcosa che sapevo
spesso acceso era lieve un senso tuo d’un bacio
che sospeso in arco sui monti dondola
e si riordina e poi riposa.
Una labile divergenza era nei remoti
mondi ai miei primi umidi passi
da quelli che nei tuoi furono i migliori.
Se accanto al declinare mite
dei monti del dolore umano
una progressiva gioia odi ascendere
e non più una labile tomba, non più è scomparsa
l’intercapedine leggera che ti circonda.
Sono vivi gli aliti non vivi dei vivi
veri dell’aria o sono veri solo
e più proclivi nella penombra.
Una mano ti si porge corrosa
già con ordine in ciò che non mai saprai,
e purché sia simile al tuo vero
senso si riposa tacita una quiete
che non più schiva è di nulla avara.
I lineamenti dei venti freddi
odi della tramontana
nella solitudine che ti ricorda
e nella tua pace densa sulle colline,
la solitudine d’un tuo lungo sogno
o una sola delle voglie tue
ch’era dentro alla pace del tuo corpo inerte
la sola necessità del vivere
erano dentro un regno tuo.
Non mi ricorderò mai più di te
se oggi non so e forse non saprò mai,
se non saprò mai più in fretta
di ora quanto sono tacito e schivo
e non conosco già nell’ultima ora sola una vedetta.
Una mano corrosa dai venti freddi
non ho mai come solo scortato.
No so più nulla della solitudine tua,
né di quella da prendere
se per patire c’era già tanto
e per vivere hai solo tanto tentato.
Ritrovo oggi me stesso. Sento da alpi
quel che albeggia così lievemente,
quel che dalla nube scende odoroso
ora clemente e così uguale
o com’era a volte dentro una nube
solo una scheggia.
A mutati eventi era una mano gentile
sotto la pioggia. L’uggia più dubbiosa
più non era nei suoi mutamenti.
A mitigarti era del ritorno forse la noia.
Gracili corolle erano e una mano
le aveva portate, simili, con sé.
Senza dubbio
era vano evento anche di mistero ed ossa.
Se le cose erano giovani di un gravame
non ricordo più il suo sonno che riposava
come la morte nelle tenebre sue
sul suo guanciale, scavato equamente.
Mi porse essa una mano
leggera e la pose nel suo solido chiarore
sopra chiare chiome dentro una chiara tomba.
Più non so il suo sorriso.
Esso era glaciale. Come esso era un amico.
In margine ad un pioppo
era proprio il suo sangue.
È un anno.
Cede il canto d’un flauto
quando scivolava un sogno
leggero su una guancia.
Nel legno inciso
poggiava intristito il vero
che non conobbe ritorno.
Il sonno s’illanguidiva.
Qualcosa era solido al suo lato,
e a lato
mortalmente concluso
era quanto nelle valli di meglio
era sugli alberi dischiuso.
Se mi sveglio
(ora è presto già un ritorno
di uno spiraglio scavato alle sue voragini)
il sangue era presago e gelido
un profilo suo d’un tempio
scavato dalle tempie
arido nel tempo delle valli.
Se qualcosa timido risuona e poi di vetta
in vetta conobbe anche l’umido l’albore
ultima linea vera subito già era.
Presagio mi lega sulle acque
e lento a le lontane sue voragini
o a le origini stellate.
Sulle vesti tue vennero
care sembianze di persone
vive e deste e morte poi.
Qualcosa era vero
e non sono lontano da te
quando una lontana vena
appena baciata, cara, era dall’aria
quando il vento, per sua fortuna forse,
li riveste e poi li assume.
I lineamenti percorrono dall’alto
una rigorosa piega che oggi si nega.
Umidi occhi espressero una pura vena
scomparsa e non rintracciata altrove
più con attenta cura.
Il pregiudizio di allontanarti,
di volerti male risiede proprio qui: timide
come in esso scaturivano le tue strane
note ora la tua stessa quiete.
Sapevo un veramente riverbero strano se cammino,
al fianco tuo o non più vicino o qui
sapevano questo di giorno in giorno
le allodole nel cielo e dentro un arco un cieco.
E perché grigia una pioggia di gennaio
umida non sia, non vale più quanto ho sognato invano,
non vale più una lucida scintilla
sulle ombre delle cose che vanno verso un sogno già lontano.
Apparivano funebri lidi su le tombe.
Ma tu domani quanto un piccolo ritorno
con puntuti occhi, come puntato hai
la vita su la schiuma, hai ritrovato
in te stessa la tua vita perduta al margine
dei sogni.
Nella marina attigua
era il tuo sangue e se altrove
non manca mai da te lontano
ciò di cui era priva e confusa spesso la memoria
presto essa s’imbianca in un soffio
o appare appena un soffuso pallido di rosa
o il suo rossore.
Non può mancare nulla neppure ciò:
ciò era molto simile all’amore.
Un complesso era vergine. Un tutto era d’aria.
Vaga eri ora e con te quasi varia:
eri quasi simile al dolore.
Ritorna il sogno. Non più mancare
coi tuoi occhi bruni sulla lunga siepe
che s’ingrigia oppure imbruna.
Non mai vista
per l’altrui dolore fu essa e si seppe,
per l’alterna tua fortuna, chi di noi due
mentre su la marea scrive e muore,
più fosse simile alla morte
o a una vigilia, dove non puoi vagare.
Vergine era tanto la solita vita che ti resta.
Dolcemente era simile all’amore
la quiete dolorosa delle lunghe ciglia.
Una vita ch’era tutta intatta
ora tua non era.
Più non era questa.
Quando con impalpabili gote
entrò simile all’amore una funebre
bellezza, densa tanto ed insignificante,
era ben lieta di trattenerti
la penombra che eguagliò i tuoi begli occhi
ed ugualmente un poco penosamente
la tenera tua bocca coi mesti
suoi remoti lineamenti.
Qualcosa
tentò la fortuna d’un’aria tua lontana.
Umile le bende di nuvole rosee
erano simile al tramonto.
E perché io ti amo
parlò una mano glabra.
Tinnente
era uno scroscio che avviò per sempre.
Sul petto rappreso ed umile
soavemente denso era il tuo collo.
Ma, ecco, pago il diletto e strappo
da te chi era vivo e solido come un albero
dietro uno tuo, dietro il tuo bel corpo.
Il tuo tempo
era sul tuo freddo labbro
appena io m’interrompo.
Non vale pena di starti a fianco
– eguagliò amaramente un nastro d’argento
in un punto ombroso te una rosea sera
dolce d’inverno a fine di anno,
e il diletto che spunta era già troppo.
Non voglio più sapere di un albero di bosco,
di una schiera lieve di strade,
di chi si ricordò di te senza sapere
come vivido fosse ed avido
il dolore del ricordo d’un tuo mondo.
Se io mi pento e l’eco non era
così stanca ancora ai confini
come io m’addenso e di te penso
un po’ per storia, un po’ per malumore,
una gioia ch’era sopra un sasso
levigato dalla lievità veloce delle onde
che trascorse monotono dentro le tue ore
era in due denso livido un tuo fiotto.
Un senso era tuo:
ora era un vivido ritorno.
Se passibile l’eco ai confini
era invisibile segno e straniero,
dubitato da sempre, passo anch’io
dentro una lievità ombrosa, carnosa
canora rara di linee.
Perché amalgame non siano più una chiostra
e non sia più una tua risposta, mi ravvolgo
nella tenebra lenta antica
che non conobbe mai il dolore.
Se l’incanto cade e al senso cede
puoi riporre ove vuoi e porgere
ignota, remota una distanza,
un’ombra serena amica alla memoria.
E sebbene
a volte l’onda cada, calda
ed ombratile già passa, ti riporta a stento
immutata più viva e vera
a te stessa come una statua immobile
stasera.
Puoi ora ai margini d’un sogno che non cerco
calda avvizzire nel dolore.
Una preghiera era immobile o una guancia,
e, riportata in te già dentro a un’unghia,
una lagrima dolce non era più di questa se ti bagna
e leggermente confida te a te stessa e si confessa.
Quando non più lugubre era un novello suono
e tu non eri, domani più te stessa,
venne e cadde calda un’ombra
sulla stessa idea. Trasparivano pori
sopra un’unghia nella tua origene
indifesa, non più si disseminavano
nella carnagione del tuo volto.
S’incrinavano valli sulle tiepide
contrade. La trepida gota
era sul tuo collo lungo.
Una soave
attesa era in un viottolo
che non frequento nel profondo.
La voce era così povera, pallida così tristemente
come seminarono sul tuo volto il vento
(così io mi ricordo)
e gelida la neve,
e bastò un nonnulla, una gamma
di sonno sopra il bianco o la seta fine
a darti una mano, com’era la fine
d’una giornata triste e grave.
Scrivo a caratteri d’oro, indelebili
come quelli che furono dentro o attigui
ad un volubile tuo cenno.
I giorni tuoi furono densi (una mano
tua più non ritrovo) e non furono
mai meno, essi densi d’un tuo segno.
Ricordo cosa fosse simile alla ruota
e sebbene non più ricca
quanto nei raggi suoi era lievemente smossa,
era già vera una giornata timida
indifesa.
Era vera l’opaca
sua umile origene.
Una festa
appariva già dentro una stella.
Se mutate ombre non erano più di geranio
un giuoco, ora era un semplice mantello di alberi,
ora uno di foglie, ora qualcosa su cime sparse,
ora, sto a dire, era simile all’amore.
Una rosea vena ne l’illusione simile
alla fame su rose grige e rosse
era giunta alla sua fine.
La sete è estinta
ed ora muore.
Una giornata ha trafitto
tutte le stelle e le ore e un disperato grido
o uno sguardo ch’io porto con me stesso
o altrove, a cui non so più rispondere
sulle tue labbra meste ai sogni tuoi d’affetto.
Ora finché rispunti gelido un dolore
guardo immobile la tua faccia piena
così rosea e sicura, solida
nell’aspetto al tuo colore.
I traguardi fugano le ore.
Sui tegumenti dolci e sparsi
(così lieve era il calore) qualcuno fu così ardito
che guardò nell’altrui la tua faccia
e nelle sue vene calme le tue vene d’aria,
dove così dolce e vano è il suo sopore.
Se altri sopravvenne non è così ricco
più, non è così vicino come a volte per ricordarti
mi raggiunse gelida una voce.
Ad illuderti
così casto, così niveo era il tramonto.
Una mano non spinse mai due volte
nel sonno il suo ricordo.
A profusione il mare traspare.
Così diaccia monotona
è una faccia non più lieve,
non veduto è più un sepolcro
che stringe in un fiore glauco il tuo tepore.
Man mano si rinnovano tempi solerti
come un dì si rincorsero i vivi
nel loro corpo ch’era tenue.
Disillusa non era anche
nella tua la loro anima.
Tiepidi trasmigravano nella tua mano
da una celeste sostanza i fiori.
Mi piace ricordarti. È una festa
appena vivi una squallida nuda danza,
quando da una pena appena tu disfiori.
Sagome acute erano
livide di geranio
o un cristallo, perché risponde
ora il dolore dei vivi.
Non più io ti domando.
So cosa facevi
quando resuscitarono i morti.
Quel che scrivi del tuo tempo primo,
forse il migliore, non raccolse gelo,
una rupe squallida e la vena
dell’altrui dolore (così vaga in uno specchio
la tua voce o dentro una vasca; e se
d’autunno o d’inverno gelido rinasca
si squarcia tiepida una nuvola
nel cielo).
Non mi riconosco
e rimiro di notte a tarda ora
dentro di esso il mio viso stesso
stremato e povero come una fronda
dentro una favola.
Mi conviene sotto archi
di cieli attardarmi e non so come si riconosca
il velo squallido della memoria
umile che rinasca o come l’odio,
due volte, dall’onda sua migliore.
Forse non fu più che sogno
il desiderio di te.
Qualcosa di acuto
era come una follia diafana
gelata nel desiderio intenso
nel vetro ora di un mondo.
Il sole delle case ha invaso le cime
e tu solido potevi essere rotondo
e dileguare con esse.
Il desiderio
se stesso trattiene e un viso opaco
morbido e fine come dentro a uno specchio
vede lui stesso e solo lui
per cortese malessere dileguare
ai piedi di un albero povero di bosco.
Ma si sapeva ciò che si spegneva
te ritto in piedi e un passo
dietro un altro era sì lieve
e poroso come era dove un altro
era un sostegno ne la sera
già piena.
Inerte una riva era pure di sughero.
Per quanto sapessi già di te sul marciapiede
non valeva esserti accanto, vicino
era altro essere che più non si richiede.
La discordanza era troppa,
gravitava nell’intercapedine
sempre di una doppia veste
dentro una dolce sembianza
sempre per un altro verso.
La città era arcuata. Felice un tuo nonnulla
certo non era, ma, vedi, mano a mano
la vena del fiume si era abbassata
a metà sonno, a metà fumo,
il fuoco era l’incesso
nell’insuccesso del tuo doppio nulla
che più non riconosco se non solo per un poco.
Da esso partiva il suo significato
e il riposo tuo perduto.
Più nonodo
il tuo cuore.
Da la clemenza dei vivi
più non ritorni e non è più viva
l’onda o altra sembianza tua nuda.
Ferma odi una voce che sboccia
o altra sostanza densa
che avanza ferrea e ti ferma
o vaga sola già in frantumi
verso la fine di altra purchessia
giornata.
Non so chiederti altro
al tuo fianco. Odi il disco del tempo
che muta voce accanto al corpo mio,
e purché sia voce viva
che più non si riconosca
sia già fiume, odio, amore,
vena rorida di cose
dentro in un lume.
Per quanto gli screzi sian folti
e siano ondulanti le cime, non tutto
appena sia fermo calmo diviene.
Pallido amuleto il frutto
le piante si risovvengono esigue
e a difendersi da varie parti
con più saggio disegno non poteva
più essere, con sete sì varia,
intenso il senso del tempo e un suo contegno.
Ma tu sapevi avviarti, così come numeri,
a le ore che furono di un giorno
distanti.
Stanchi nei riflessi
fluttuarono i giorni; ora senza essi
come numero vago furono ferme
le penne, cioè, per esse, da onda
ad onda, cadeva il riposo del tempo
che preme e divenne.
Non ti distaccare
dai segni così distribuiti, mai sazi
di essere visti o convinti di sapere
ciò che era dentro ai tuoi vizi distaccato dall’aria
e per sempre.
All’acqua tenue
timida accanto nell’aria erano vaghi alberi
appena stormenti.
Tu pure nei segni sapevi palese
essere o nel flutto di una voce
eri timidamente mutata nell’aria accanto
nel grembo tuo di un fuoco.
Assiduamente vivi fra i tuoi vivi
e i ciechi più non erano o non giovavano mai più.
Dissidii come in distici eleganti
canti erano levati in alto,
al vento veloce, dentro un nembo,
nel tuo grembo teneri e dormenti.
A rilento le stesse sostanze
vedi. Non è mancanza di sole
la luce che vien meno, la calma piena, il bosco,
una gocciola, una luce, una casa,
la cara sembianza di persone morte,
com’è solido il sapore, il frutto del limone
e in altro giorno attiguo il tuo gelido sopore.
Sopra le ossa, su le medesime cose
è opaco assiduo, in un fiore,
deserto il batticuore.
Non posso muovermi per altra distanza.
Quel che avviene non è ora triste tanto.
Non tento di difendermi, non curo
di smarrirmi. Una sagoma alata
così lieve mi conviene. Due volte furono
gocciole sole remote. La luce s’imbeve
e minacciò essa esigua le pallide gote.
Non è questo più luogo di rinarrarti
miracoloso un segreto.
M’appoggio ora alla carne ombrosa
del bosco così monotono quieto
così rinascente con teneri suoi fili d’erba
sul verde, così come ne la selce scolpita
risuonarono ne le sue note le mete.
Non si deve,
non si può ne le serate tristi d’inverno
accennare al dolore.
Sopra uno zigomo
si riaccese per conto suo vago
nelle sue sembianze il colore.
Le lagrime vane sono della sera
le chiome.
Quando remoto al dolore
il tuo cenno d’addio, ecco, riemerge
anch’io mi riaccorgo e cieco ritorno in dubbio
coi vaghi occhi tuoi che annunziano
e conoscono il colore tuo di sempre.
Il sentiero colla sua ombra
non era parte più di te, delle tue lagrime.
Una linea discontinua sommessa era una vena
che te trasse. Pure una stella era sulla via distante
col passo tuo solerte in due punti
che erano deserti o non mi posso più risovvenire
di ciò che avvenne.
Causa senza pausa
o senz’ombra di mistero era il tuo desiderio
d’amore ne lo spazio azzurro, non grigio,
non più bluastro e squallido ma vero.
So qualcosa
che si riapprendeva timido al tuo labbro.
E perché ombre vaganti non erano
il vuoto, non erano più plaghe
che non occupo foglie dimesse e piene.
Violentemente s’accende in un lampo rapido
l’amore già nell’odio.
Di là tu eri
oltre il ricordo del tempo, dissuaso,
che m’invitò di attendere.
Se dolciastro
fiato d’alba ora viene o qualcos’altro
è tempo già d’amore e di fortuna.
Pure il caso contrappone un suono
e corrompe me una pura luce smossa
di una scorza varia d’albero che più non si frantuma.
Gioioso liquore nell’inattesa rincorsa
o una tazza compone entro uno scheletro
vano dei vivi e dei morti con pace
le mie ossa.
Riodi forse una compattezza che fu così gentile
come argentei furono gli aliti
che si posarono da una mano così porosa.
Mai parve così solida una sua clemenza.
Ma non posso più annunziarti
o fu per riceverti il rumore,
il mormorio tenue delle maree
rapito e smosso dalle onde
nel silenzio delle tue stesse idee.
Quando la vita fu una rapida scintilla
così solida e piena (vieni ora a ricevermi
e ad attendermi poi) ed il riposo fu prono
da vaporoso uomo ad uomo
in ogni villa; non so che viso scuro
e senza pace ebbe una donna,
e se ora posso e debbo tacito ignorarmi.
La vita non ha vestigi. Senza dubbio
posso travestirmi colla vita stessa,
colla sorte della sua lunga legge
o sulle sue lunghe ciglia
o sulle lunghe mani o sulle dita o col suo sangue
sempre lugubre a svegliarmi.
Non hai detto che bisogna ingannarsi
(una pallida mano è nel cielo folto)
o come acqua distendersi senza un letto
e senza scopo sopra un giaciglio senza tetto.
Amo l’amarezza che venne a caso
a rapirmi, il mattino a pochi passi
di una conca, un luminoso senso
senza difetti o inganni.
Amava distinguersi
e risillabare in tempi ardui, alle radici
o in un tempo come quello stretto
che tu dici, un giovane corpo
dinnanzi ad uno specchio per adornarsi.
Si dipinge una coppia luminosa
quella ch’era sola tacita
accorta innanzi agli anni
o quella che era simile a una gioia
di uno che ascolta, a cui pure venne una goccia
simile alla febbre, di fretta, a noia.
L’ebbrezza era troppa.
Era essa residua di composti
compositi di ombre, trepide,
timide su una guancia
sole e, in silenzio tanto timide e gentili
solamente dentro cose certe, terso ad ingannare
le giunture e le mie ossa.
Non posso dissuadermi anch’io
se anch’io ripenso. Un passo lugubre
sul corpo, una cometa erano
e purché la gioia non sia sempre quieta
tenuta con furia, più porosa
di una vetta d’aria tumida
che costa troppo non poteva più non essere.
Dentro una gabbia sul selciato parlo
e numero le ore del mio giorno.
Ripopolo il tempo mio con ombre
stanche e parlo da solo o mi corrompo
in un gruppo fragile e dissimulo,
perché le vene tumide dell’aria
erano una porta viscida che non più risponde
e, salvata in alto un’altra volta,
era da un’altra vetta che va più in alto
e che non varia.
Non era più una pallida rosa
del tempo quanto ne lo spazio
antico era e m’adagia.
Non era più una spina
o una posa doverosa il silenzio
che solo s’attarda.
Senza fine la gioia fu varia.
Aveva pace o era nera avara la noia.
Era mia nelle ore mai stanche, ferme
d’un tuo riposo.
Trepide membra tiepide erano nell’aria.
Sono arsi i movimenti.
Ora tardi rispondi. L’indulgenza
non è più pronta come io sono sì schivo.
O questa già quieta è l’algidità
che ti circonda. Folle un tuo sogno
è una lagrima di protesta, che, ad onda
ad onda sola ora viene e se scivola
la lucciola sui sentieri non è più gentile
certo di questa.
Un’impronta cambia
subito il remo e le sue vele.
Se la leggenda è esatta
ora è un dolce lagrimare
che più non si vede, contratta
esatta doppiamente ardua
con furia nella tempesta.
Scintillante il tuo sangue composto
di ombre era vagante. Leggera gentile
appare una pianta. Non più assiduo
è il tuo batticuore. Lentamente
ardue nell’ordine di un ardire
si profilano non vane carezze
e per una vana rincorsa
il tuo cuore è una leggera sorgiva
vaga di carezze e di nozze.
So di non essere mai stato. Ma ora ti è a lato
ciò che faceva al tuo ardire. Un furore
fu il prezzo ininterrottamente. Si udiva fuori
l’odorosità delle rose.
Le mandibole
stanco ora muove un insetto
e in sé riesumando una legge
se questa era come dentro a una favola
essa era pure una gioia strana e un diletto.
Non altra sagoma era di senso e cielo
che mi sorrise su questa terra
di una curva di un silenzio
ch’era felice. Un’altra giornata
o l’alba adolescente erano miti.
Con gemiti una gioia oltre un certo limite
non mi permise di trattenerti
o di tradirti. Oltre era un cielo glabro.
Vidi la fatuità lenta dell’ora
diventata sull’erba verde tenera uragano;
o una fanciulla una creatura d’aria
era che mi sospinse. Inventata
era una lieve culla sempre più lontano
e tu potevi essere erba folta o grano,
qualcosa come il frutto maturo,
un esiguo giorno d’autunno
o d’inverno che pianamente in sé ristagna.
Un solco avevi arido ed umido
sulla fronte e non era più temperie vana
quella che aveva di sé intersecato
più solido il flusso incerto delle maree
avide come io avevo sognato invano
l’arida tua pelle sul tuo poco volto umano.
Odo qualcosa con ordine.
Lievemente la castità le rassomiglia
e si modula una voce: poteva incedere
essa simile a qualcosa che la castiga
e vedevo una morte.
Screzi erano
perpendicolarmente, un vuoto era un limite
che sfuggì rauco sopra una palpebra
e separatamente.
Se per poco odo suono
non era più indulgente la sommità delle cime
e un nastro era d’argento.
Mi pento
ma non ritorno indietro. Dissimulava
un cavo buio un vuoto all’interno. Un ricordo
riodo. Una mano sul marmo
una scheggia era di un astro. Dentro
era una stagione sonnolenta
nell’uggia sua più intensa.
Quel che cerco
non era pane sopra una piaggia,
mutato il corso veloce del fiume;
quel che non posso più dire era in un lume,
una scheggia sul parapetto.
Se per caso sapevo addentrarmi
era un ritorno, poi era un opaco
nulla dall’esterno e non per trattenerti
sapevo, stanco, così poco di te.
Sulla tenue erba, a monte, era una stella,
o una sorte laboriosa, quando infingardi
sguardi vidi, vividi, discendere.
Non guardo
più addentro se non come una madre
amorosa nel bosco, invano, per attenderti.
Qua conobbi quanto fragile era
o ancora non era la voce del bosco.
Qua foglie erano o viole dischiuse.
In un paesaggio apparvero sembianze
mute non vere. Il parapetto era di là,
così inerte la foce era di un fiume.
Monotone voci
salivano come la sete rorida e casta
di semplici cose.
La gaiezza invade già i monti.
Un soffio ella vede (verde era
come un lembo lasciato alle spalle)
nelle vene delle sue promesse
la primavera che viene.
La prima ora che scocca
era lasciva e dolce nel cielo.
Errante non preme
in questo istante o già era
lasciata in disparte
la volatile sera.
Forse ricorderò come apparvero
altre dolci umili cose,
né più subentrante il limpido volo
mi desterà della pioggia severa.
Libero non più andrò nel filo glauco
della pioggia o nei suoi nembi di fuoco.
O mi salverò a tutti i costi
non più limpido sui falsi piani
dove andrai vagante di notte
sotto la pioggia già acerba,
e se vuoi essere sola con me
umida e nuda la terra ai tuoi piedi
si stende. Né cerco di più. La nebbia
sale grigia alla tempia. Dal davanzale
triste leggero il tuo sonno.
L’aria grigia esterrefatta
nel solo suo volo si trattiene e non so rupe
o paesaggio così prossimo alla morte
come quello di essere solo nella nudità delle sue vene,
nella densità della terra
in cui erro da sempre.
So molte cose,
ma con prova e con gioia. L’erba non mormora
più alla triste sua radice, mossa
dalla velocità aerea del sonno
che dentro se stesso già si serra.
L’aria non può più muoversi
o un uomo non è più solo.
Sempre più dentro a se stesso innanzi
a uno specchio solo informe
opaco si difende.
Un astro era di puro vetro,
un nastro era d’argento.
Scende una chiarità oscura
sola a momenti. Potevano
altri altrimenti. Dissimile era
e dolce sin qui, chiara al dolore
nei vuoti tuoi lineamenti
acqua sorgiva negli occhi tuoi limpidi e tristi
e fai in tempo a difenderti.
Non voglio più udirti.
Qualcosa naufraga. Tu forse
sapevi quanto errante fosse una pena
di tempo in tempo a qualcuno
che nell’aria colla sola speranza
già avanza.
Come la morte
acqua ferma e vana ti attende
tante volte sopra zolle umide e lisce.
Liscia ella era e tante volte
era pronta a tradirti umida
sopra un lago di sabbia.
E fai per prendere. Ma occorrono
ed accadono molte altre cose. Alla fine
tristi e vani sono e varii i sortilegi.
Alla fine di un anno
a incominciare da qui potevi dolce
essere e vagare così prossima
ad una curva parsimoniosa
com’era simile una volta la tua morte.
E sono tant’anni.
Dai fiori del campo nudo
si sugge il miele e non è testimonianza
più qui l’ultimo grido del cielo,
l’assillo veloce dell’altrui dolore.
Cadono vani sogni,
le sembianze nel nulla.
Non vano è il partecipare
che ti faceva accostare sin qui.
Cade anche la tua riluttanza
sui corpi inerti.
Se mi dolgo, se per voraci incanti
ed origini propendo, non era monotono
moto capriccioso del fiume, perduto
un tuo senso in ogni vero tuo momento.
Stai bene a vedere.
Se voci furono tante tardi a rapirti
non chiedere più del moto azzurro
vorticoso che si spande in un lume.
Tante parti ti attendevano
da tante parti diverse.
Quali beati lampi, quali lineamenti erano
io più non dico; perché, giunta l’ora
e in tutti i tempi, se lontano guardi,
pianamente è felice chi s’è conteso
con te un ritorno, per caso,
per un suo lieve amore.
Io non ti indico più con quale forza
un canto sia rimasto cauto indietro
nascosto nel centro come una pace
sulla via dell’ombra con un suo carattere.
È palpito vano il cuore
o lontana la sua vena vera inesistente,
immagine scolpita d’un amore?
Io mi ricordo con gloria e, non più ricco,
non più indifeso, un senso tuo disumano
sento che si perde in un lieve coro, dove il tuo corpo
fu compiuto, quello che da un quadrante gelido
risillaba lente tutte le tue ore.
Superbamente
si accecano i momenti.
Sapevano altri guardarti intorno
quando muta tu eri, e soavemente una sorgente
o gli istanti non più ritornano.
Con pena ogni silenzio fu una luce funebre
corrosa. Porosa e calma una mano non fu sì eguale.
Lontana e lenta una fiaba a te ti riconduce.
Pure purché miti occhi ti cerchino
od accennino ed accendano qualcosa
ch’era in te, e non più ritornino
nel mesto nudo cammino i tuoi ricordi
e sui tuoi pensieri onesti e due a due, nel mondo disilluso
gli ordini che con pace erano fuori del tempo che non fu più tuo,
nel bagliore proteso verso un ultimo orizzonte,
per poco l’anima col suo orgoglio, mesta, più non cade.
Luminosa era una fiamma nella notte.
Presso l’aria grigia accanto ad un fanale
un povero bussò più volte alla tua porta.
Esemplari grigi colmi di gioia mesta
non sono né ti attendono mai più.
Io non mi ricerco colla forza
umida dell’altrui dolore, occhi ora rivedo
vuoti, quel ch’era tuo e disteso fu da sempre:
lampi sopra una buccia tua che scoccano.
Se cado a misura di una misura
di un palpito d’amore su la neve o un nome
che con ardire riodo, tu sapevi con ordine
che un cadere era nel suo folto.
L’anima
era sospesa, sempre timida e ineguale.
Sapevi propinare una materia inerte
e una ne concedi. Un fiotto era un sordo alito
nel cuore. Se siedi presso un fiore
un sopore presto soffuso ti conviene.
Soffuso era e rappreso a la tua anima mortale.
Tonda tanto spunta una luna
come un calcolo del cielo
diffusa nel mistero o come un piccolo viavai;
e, perché nulla di te si sappia, ora un battello
era, ora un cristallo di pace su una nave
sospinta sola sulla via dell’orlo
dove timida e trepida tu vai.
Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro.
Tu eri coll’anima riappresa
ad un tuo giudizio quieto e se trascorrevano
le vene sole, monotone le ore, si ruppe sempre
il tuo silenzio e tu eri, forse, in un silenzio, troppo schivo.
Questo altro anno potevano avverarsi
cose entro cui ti attardi o ciò fu già da un pezzo.
Un precipizio o una sagoma
ti rimproveravano. Parevano cose tali
da venire sempre indietro,
da avverare sempre un’ignominia
o un antico sacrifizio.
Un livore poi non era più mortale
su una rupe di gelo che non era sempre antica.
E mi attendo qualcos’altro
nell’afa della canicola stellare,
da te protetto in dolce ansia
confuso nel tuo aspetto,
col sale del tuo simile nel petto;
o da te nuovamente nuove il passo
la dolce alba, ma non riporta
nulla, tumido il tuo volto,
e già essa era di porta in porta.
E vorrei dirti di me, di te che più non sai
quale sia gelida avanti l’alba
una risposta e, prima che la giornata
in un poro socchiuso cada,
quale sia cosa che ancora umida si salva.
Potevano essere molte cose
e molto da te diverse.
Ingemmata
sopra una plaga poteva essere
una verde spiga che rigermoglia
sempre o quanto ricorda
a te solo una tua piaga.
Forse perché partecipi di un modo esatto
di essere le cose non potevano essere diverse,
distanti da te, mi piacque la loro essenza
come la morte. Ora m’odi. La parte rinacque
gelida glaciale, un puro spazio di ozii
che m’invaghì. Un poco di te pure mi prese
ma piacque distendermi.
Molte parti di esse erano vere.
Si salvò la tua purezza e di notte
sul tardi venne ed amò la clemenza
e non invano, e dove mano a mano
lenta era l’opera del tempo,
un sacrifizio tuo era tacito che amo.
Ora vedi chi sono, chi amo. Molle
nelle tue vene senti chi tanto alto ti attese
e venne a rapirti. Ma oltre l’essere inumano,
oltre i suoi limiti, era una selva
di pure lievi sorprese. Di rimando
viene smorto già un tuo sguardo.
Hai bisogno di essere in te stesso
confuso come un ricordo che a volte
di sé si risovviene e non mi dimenticherò
mai più di te o di altri ora che ingiallisce l’ora
ed opacamente un fiore, e non puoi più attenderti
altra forza oltre quella che, entro i limiti naturali,
scorre a gocce o proviene da se stessa
o dalla cima delle rocce.
Così prossima era anche la tua fine
dentro la sfera di altre ossa
che furono e ti rapirono con forza.
Se accade il giudizio
aspetta quel che può essere.
Così la gioia si conviene a poche cose
di cui, a prova, ora hai un sentimento.
A riprova
hai varcato un limite.
Cerca
pure, se vuoi, di mantenerti.
Mi piacque così povera una cosa ora, delusa.
Era
come quando cercai di trattenerti
e dal letargo cadde una larva da una schiuma,
una bava vaporosa, amorosa di crescere
e non cercai più in altri occhi asciutti
che i pensieri di se stessa.
Se sul mare mi ancorai, chiesi ancora
vaporosi dubbi e in me non era più, dunque,
che un’anima mortale.
Una gioia bramava riesumare l’aurora
come da sempre avvenne. Triste era l’anima!
Non mi piacque di contrariare. Cresceva
in assoluta libertà, in lei, vaporoso
sangue lentamente vergine a brandelli.
Se la lievità contrista le ore
ora ritorna l’amore e non sai più
di non essere che un corpo fragile.
Interrogai poi l’uno, dopo l’altro le mie ossa.
Né mi dispiacque più di non essere
o di essere già estinto, ma più giusto.
Per me stesso si profilava oltre un certo limite
una bara che discendeva lentamente
dopo il suo corpo in una selva amara.
Sono minacciosi i giorni
ma tu siedi ora con gioia. Ristagnano
pensieri dolci a vedersi dentro un tacito raggio.
Non ti affannare di notte.
Come si pensa a volte nel sangue
si spegne la sete più intensa e dubbiosa
che spesso scivola e cade
da una mano veloce sui sentieri.
Solo la sera imminente mi commuove.
Si traggono felici conseguenze,
aliti non quieti come dentro
furono un dì, un giro curioso,
e per caso tacito un inganno
sul cuore delle rose.
Si spingevano
a valle tante e vane, tacite le cose.
Non sono per te più di rimando.
Tu siedi sul marmo. Vedi cari lineamenti
e sono già decise le tue cose.
Se una quiete esse furono,
fu sorella oscura, avara, carnosa la morte
aerea a seguirti. Se sparsi frammenti
esse furono, la notte vaporosa
o la noia non più mia erano sempre.
Vedi,
ti attendono ancora gli intensi sensi
dolci aliti dei vivi.
Sono risospinto indietro
e più non mi riconosco
in dolci frammenti
e più non ti domando
deciso, come sono, sempre pronto
rapido a seguirti;
e quando la verità scompare
e scompone sempre più se stessa
dentro i suoi principi poveri,
dai firmamenti scossa, riodo,
quel che volevi dire.
Sono lievità le stelle carnose.
Qualcuna nacque da un desiderio
intenso d’uragano.
Se partecipe vicenda
esigua era, già m’inganno o torno
a trattenere parvenza rapida dell’ale
che si ripiega sempre su se stessa
tu eri sempre più lontana
e sempre e più sempre con un alito intorno
come a te si versa sempre più da viva
un alito del bosco.
Gamme lucenti sui tuoni dei boschi
erano o un tuo lieto colore, come si dice! Ma tu in lagrime
sempre fuggenti, sempre più fuggitiva, sapevi dissaporare
tanto come felice dentro era un velo di cinta
vera una donna ch’era già viva.
Acqua tiepida dentro un cristallo sapida sale.
A volte s’apriva, dentro, una sfera.
La rapidità ti sorprende.
Era sempre presaga una musica,
una virtù ridotta, una morte
già angelica, uno spazio, il colore
tiepido, una pallida guancia che ride
subito desta e in se stessa riassorta
subito muore.
Non ti sapevo sognare diversamente
di questa. Non altro, quando
di te lievemente dico, era il tuo nome.
In un silenzio felice, l’ombra luminosa
di un volto sul volto era di un altro,
una sfera sempre di ardire.
Ma perché le onde su te ritornano
e tanto vennero sempre con gioia
non so quale quiete sia la più solerte:
se un sicomoro che amava rapirti
nel cammino roseo dei venti
come un numero appena o un respiro
solo frequente.
Solo pago ora stasera.
Né chiedo di più, che un tuo debito
sia un tuo nuovo ordine o una tua preghiera
né viva ora né lieta.
Se i riverberi
sono stanchi non più assidua era una vita
nella tua sera.
Tiepida una tua risposta
è nel vento sopito o rapido.
Dentro una morte
fulminea era una tua tempesta.
Quando dai rigori chiusi
di un ruscello – caso strano! –
è un ordine felice, sei tu che costi
o è un sogno appena libero
e rotondo sul tuo labbro
che ti sogna e ti comprende.
Intima una vita liquida
si riaccende. Naufragano i colori,
silenzi densi e strani quando l’infingardo
volo delle nuvole nel sole ti sorprende,
e se tu sei venuta sola da ponente
nel grembo tuo tutta t’appoggi
ed in esso è tiepido leggero il tuo più lieve sonno.
Oggi sono presso te, domani
è più penoso un tuo ritorno
così fitto nelle mani tue
ad attenderti quale è un dono tuo di sortilegi
vano verso te a difenderti.
Un originario senso
oggi si pieghi nelle tue pieghe rosse,
esse verso te protese o verso già se stesse,
quale abbandono od ala folle e densa
vergine è il silenzio, ora la pioggia.
Presso a le opache soglie
o a le origini stellate erra già il tuo volto
e dentro un suono, già il tuo, un errante volo.
Non so qual sia più errato
canto: se il volo delle nuvole disteso
o quello che è nel sorriso d’un tuo povero
nel cui mezzo sono solo anch’io.
Giunto
alle medesime cose la medesima rovina
che si fende è il suo silenzio, nel plenilunio
che veloce ti comprende.
Nella vita una piega risuona,
pioggia tinnente folle è una città
che appare invasa a metà.
Sono queste
le cose come l’arsa tua febbre
sopra aride zolle.
Un respiro glaciale d’alberi stanchi
entro una siepe, sono nella notte
gli uccelli. Dal tempo delle acque
brucano nel cuore solo se stessi
o la profonda lor quiete.
Parti diverse di essi
amarono i sortilegi.
La soavità è glauca anche oggi.
Anche oggi sono strani deserti già i fiori
l’uno mosso nell’altro.
Annotta
quell’unico viso ch’ebbe in sorte il dolore
ed amò negli stessi riflessi di esso
uno dei suoi privilegi, e dentro
la stessa morte la materia
della natura della profonda quiete.
A discreto suono
errando vai e sono contrappunto
dei boschi le radici, le sagome
acute e reinvolute che un silenzio
contraddistinse da la morte.
Quel che dici
agreste succo sgorga.
Il frutto maturo
appare denso degli ulivi.
Tu per incanto
potevi essere fra quelli di cui non si dice
più che il nome.
La vita lievita nel silenzio gelido
commista ad altro e già al tuo canto.
Come uno il cui viso annotta
di cui nulla si ricorda per non più rispondere
mista alla sua stessa sponda
mezzanotte alita sopra già una fronda
e con essa va la mia vita o è vinta.
Essa è già pure pura essenza china,
chiomata sostanza di una luce
di albero che si versa
e ad una favola fievole declina.
Gemme roride sono una nascita
nascosta sulla ghiaia. L’ora boschiva
è quale un albero fuggente.
Sono
qual sono. Tu sola mi comprendi.
Di anno in anno più la mia vita
è sola o semplicemente già furtiva;
e perché io non sono certo più di te o di me,
delle ore fuggitive o di come si comprendono
e si compongono le cose; e se da te rifuggo,
se cammino oppure muovo
una tua mano o tiepido m’appoggio
al davanzale timido del sonno, e se sono
solo fra me e te e non è più l’uggia
tiepida la pioggia a tarda ora
sulla strada non più ignorata, vedo
anche quel che era ed ora limpido si sogna.
E sono libero o troppo è ora libero di me
nella libertà ghiacciata precisa dentro le tue ore
nella vita sempre in moto e sempre eguale
verso una meta di alberi di bosco.
Di ora in ora si rinnova in me sin qui
quel che era aria in una libera vicenda
ignuda se ti tocco.
T’appoggi o tu sei simile a ciò che io sono.
Non è più libero senso una città natale.
Quel che si rincorre io richiamo nel tuo sole
già o è una virtù nascente.
Si difende
al limite su una ghiacciaia una meta
dei tuoi sogni e passa da una strada
su una guancia.
Spesso accertata meta
tu sei un sospiro, un respiro d’aria
così opaco e forte a volte.
Mitemente mi scopro.
Non più l’aria umida tristemente
è della sera timida nel vespero,
se leggermente suona ed io sono
di mezzo o tu sei già di troppo.
Il tuo nome
è una pioggia aerea tinnente che scava
le radici cui mi appoggio.
Appoggiato ad un pioppo
era un pozzo o la città che fu tua
che più non ti comprende.
Sono qual sono
o come un albero a ridosso e mitemente
che declina dai monti ad una sorgente
sua che fu d’aria o di polvere.
O forse io non sarò più mai.
Timida declina la stessa cortesia
che invade umido il tuo labbro.
Vedi la sera.
Di se stessa nessuna novità più concede
se nuovamente, pianamente il sole
riaccende un raggio cui nulla so più rispondere.
Quando da monotone cose
a un’erma cinta verde rivestita
che di rose odora, non so qual mezzo,
qual prezzo delle tue lunghe dita,
ora l’incedere o l’andare da una veglia
blu rapida del cielo a una vigilia,
era una rosea vena che ti ricorda
in due rivestita tiepida e leggera
nei colori all’altezza del suo volo, la tua sera,
qualcosa o qualcuno era presso a la tua soglia.
Se bionda eri e non più io ti domando
non so qual passo composito di ombre
era subito al tuo labbro.
Vuoto fugge
e triste un compleanno.
Sebbene le ore non siano più quelle
che furono una volta
non so qual casto canto
strappava efelidi leggere
ad una bionda gota.
Passava una piega veloce
e non aveva più rughe tonda
e tarda la tua strada.
Qualcosa nell’asfalto rassomiglia
a la quiete della lunga mano. La quiete
delle lunghe ciglia, scavata ad arco
era su una parte della parete liquida
di smalto.
Così una morte cerea
era la morte triste che ti somiglia a lato.
Raccoglieva onde una curva che agile non era,
una risposta folle, o una luna
che avevi alle tue spalle.
Se ripenso alla lunga inerzia,
tu eri di mezzo la sua lunga grazia
insazia dentro la sua pace:
gemmata tremula sul labbro
modesta in abbandono non veduta era in disparte.
L’ora del tempo non era quella
che amava più l’onda del bosco.
Sapevi quanto assidui o intensi
erano i richiami nell’onda che marcisce
e se ti allontani dai tuoi brevi passi,
simili essi erano a quella che chiamavi
l’età dell’oro.
Se, da diverse parti, sottintesi i segni
divengono quel che sogni e non sai
più quale curva lena sia rosea una linea
tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella
e, senza percorso, più sopra un pensiero,
ti sporgi nella medesima ora
che improvvisa si rinovella
e ti dette la nudità del sogno,
l’anima sempre uguale era senza mistero
o l’anima puoi perdere alle radici
o la semplice nudità era un assolo.
Ma perché da parti uguali erme divise
non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri
sopra i tuoi fiori nella medesima
aridità che ora scintilla essa balena
e ti accorgi di essere più solo.
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.
Erme cinte di rose
appaiono già tutte le tue cose.
Roso il sangue, una verbena
smorza il calore e come una scintilla
rapida sei tu su le tue membra
di ombra ed ossa. L’infingardo
sguardo spesso ti trattiene sopra una curva
smossa. Ora guardi il cielo. Sopra alberi
è il murmure della penombra,
cosa rosea insieme dei mattini freddi
o dell’afa della canicola che non geme sempre
e vorrei altri fiori sopra una verde aiuola.
Voluttuando, guardandoti in altri occhi
ciechi non sempre fermi è rosea una sera
o una rosa è un secco sguardo fermo sui capelli?
Mi chiudo in te stessa, priva
di vita, e non chiedo più di uno sguardo,
un brivido, una gemmante dolcezza
dentro una certezza che tu tenevi in mano.
Nei tuoi occhi di smeraldo era una carezza
o nei tuoi occhi di fuoco flutti finti.
Su tenui steli teneri
esili, dormenti ora odo in archi di baleni
l’essere e il non essere o non odo più altro essere
nelle penombre ritrovate altrove.
Non ho più altro soccorso
che questa tua strenua
volontà di vivere che si riordina
nell’opaco specchio del tuo viso,
non più vivo che si riannoda a se stesso
solo e spesso ti ricorda.
Non so quale altra mano, quale lieve
sorpresa era fuori del tuo sguardo,
quando per il dolore umano,
passo dietro passo tu eri folle
o fuori e priva di te stessa.
Ma se mi piace la volontà della morte
e il senso tuo e dietro essi il senno
che la voluttà comprende,
tu sei sempre viva e sempre sveglia
o quella sorpresa in onde di aria
nel profondo del tuo sonno.
Vaghe gioie diafane erano capricciosi i tuoi momenti.
Vivi come la tua morte e sono vaporosi,
forse sempre densi, gli inerti tuoi capelli,
che in sogno e solo in sogno
in verità ora comprendi.
Scivola la nudità
glauca dei sentieri a metà del sonno,
la novità che nessuna volontà
ricerca aerea più di quelli.
Pure la novità del tuo lungo sogno
lugubre leggero si riaccende un giorno.
Da te lungi possono accecanti raggi
sgorgare sulla tenebra dolenti
sulla terra, come furono dipinte
le care ombre di carne ed ossa
sulle orme delle ore, alla soglia
d’una vita sempre smossa.
Dei viandanti origlia
su ogni cosa tiepida un tappeto verde.
Trepido brusio lievemente mosso
dalla sommità degli alberi
una gioia ti reca che forse ti somiglia
ed ora ondeggia.
Una fronte fu pura,
pensosa una bocca. Dolcemente umile
era una quiete nella quiete d’una tua vigilia.
Non voglio ricordarmi più di te,
di una scala ombrosa e non mi raccontare
più come meravigliosamente avvennero le cose.
Le cicale che si attennero alla canicola
che dilagava folle non erano più
che un’ala del tuo sole e presso te già era
una fonte sul murmure dei fiori
levigato accanto. Dietro una lastra di cristallo
od una d’alabastro una statua era la tua mano.
E perché povere ossa furono prive
di se stesse, dentro di esse una prova
di ciò ch’era vero solo nel tuo tempo.
Sulle vesti tue sbocciò una larva
e da rigo a rigo esattamente vuoto
pianamente mosso da un fremito di ali,
anche quando una quiete freme o pure si raggela,
era una virtù di crescere che ora è ricca a stento.
A parti uguali non più divise
cose acerbe e tenebre rispuntarono
come le foglie nei boschi. Sulle nostre vesti
è ormai lontano il ricordo. Io non riordino
più i miei pensieri, come riodo ai miei passi
fra i passeri cadere folta la neve.
Nella castità verde cinta rapita
ai ruscelli è un ritorno, un ritmo di un interno,
lontano un calore. Non mi risovviene
più chi del suo suono era ebbro o non posso
più essere qui o altrove o altrimenti.
Liquida amarezza calata entro un’ala
ne la ricchezza de la commozione del tempo
sciolta era dentro un’isola rara. In un silenzio
di verde disperato abbandono era calma
una quiete.
E perché verde cinta,
era anche una valle, la natura stessa dei sogni
in sé vede chi in vita glaciale vicenda
alla nube silente che più non ritorna concede.
Nella tua mano era più di una deformazione
che sé non comprende e si sgrana.
Mano a mano la vita se stessa riordina
e in se stessa sempre uguale le sue orme difende.
Povere cose non furono mai così intristite
e sì ferme come adesso ti accorgi
e già sogni.
Nella vanità nulla era simile ad una rondine
che sfuggì dall’interno a un languore.
So già la duplice
lievità: quella che più non rimorde
o quella che hai più fitta con pena
nel cuore.
Se mi piacque distendermi
nel senso della notte, cosa fatta
era con calma dentro il più vivo dolore.
Ma non ti frantumare. Pensa
a una luna, alla natura
come a tanti frammenti, e se una larva
fu una testimonianza come in brividi
nel tempo che durò tutto il tuo batticuore
savie furono le tue prime parole.
Tutto fu vano
e dissimile alle origini come una morte.
Un nuovo senso amò i sortilegi,
le vele furon grige, un albero cadde
con disordine a terra e tutto l’oceano
era un solo ricordo nel riflesso
dell’occhio vitreo del volto di un altro.
Spesso i viali si trattengono come ombre
e non fu per il tuo continuo cadere
quello che ora tutto si vede.
Diafana
o lontana era anche una tomba.
Eran grigi gli asfodeli che tenevi per mano
e qualcosa si rassomigliava a te stessa per poco,
t’invitava per giuoco a una festa
questa che ora quietamente era dentro il più lieve calore.
Dopo la mezzanotte discende un metallo.
Un mantello di foglie era quello d’un povero.
Un viottolo freddo tu non potevi in apparenza
tentare.
Non era lontano
lampo che ondeggiava.
Scivolava un suono
soavemente smosso all’orecchio.
Sebbene ombre vive ferme sembrava
tu amassi, non per questo un ordine
freddo sembrava un mistero amarti sognante.
Satura di te entro te era
un’immagine fredda boschiva.
Il frutto maturo dei giorni
odi come un lento cadere di foglie
e se qualcuno fu tanto cortese
ad udirti ne l’ora dei boschi,
tacito era anche un canto più solo
che s’avvicendava a se stesso
sui monti lievemente a smarrirti.
Se qualcosa scrivo, sapeva qualcuno
già stranamente esserti schivo, certo
della triste tua sorte, una vicenda era
immobile o lieta. Man mano s’attardava.
Un venir meno era l’anima residua,
un sopore di corpi morti,
che inerte cada. Un sopore
vivo si posava vivo sui denti contorti.
Alla mano tua furono portatili
tante ombre di nebbia e di strisce.
Odi il dolore forte e triste o breve dell’uomo.
Meno breve era quello di una gioia
che lievemente a gocce frantuma le ore.
Fumigarono i giorni
e tu sei strana e tanto.
Pure perché da te si ebbe un sogno
(non si strappava più dai monti
un seme) furono languidi i tramonti,
vani i sentieri che adesso tu percorri.
Tramite un tratto rossastro azzurro
o nero era pure di fiori.
O tu sei
solamente vaga, conservi l’imminente
tepore che ti trasse a piedi ignudi
dal letargo del tuo fango, o solo era oro
e seme azzurro di membra e di ossa.
Concedi
come un tuo nastro primo
il tempo che fu tuo,
che fu tutto uguale.
Ogivale aereo fumo
e sonno lanciati in alto furono
un suono scaturito da un grembo già mortale.
O mutata tu sei e, di oro
in oro, azzurro divenuto è il tuo colore.
Nel mare e tramutato un altro viso
era il tuo sembiante.
Perché molte cose si ebbero e primo suono,
di notte, si distrasse da una riva
ora vede qualunque sia la sete la sorte che fu di angeli
nel tempo che fu tuo: s’allunga ed ora rade
blu oro azzurro cupo nel tempo
delle strade.
E, riesumando il tempo già una legge
(non è questa più l’allegoria: ardevano
già corpi morti e il fumo dondola)
non è questa la magia.
La morte
aspetta in fumo fermo sonoro
in sonno tutti.
Furono
brama i nostri pianti nei suoi peccati: non sono più essi
che fiocchi lividi di nebbia, steli esili
dormenti rapidi al tuo fianco o negli occhi tuoi
che dai nostri furono gelidi e distanti.
Gentili giorni disadorni aspetti.
Ai tuoi lineamenti i capelli erano simili
fra loro. Uno sciacquio glauco dentro
internamente odo.
La brama
assume una grazia ne la lievità di crescere
prima che dentro questa come spuma
sia imminente solo una chiara vena
o già un ricordo appena.
Similmente
all’oro non basta simile a se stesso
dentro un’azzurra schiuma
più limpida una schiera.
Gli archi
si muovono lenti o sono simili fra loro.
Dai parapetti quel che lievemente
triste si concede, ancora internamente odo
entro onde immutabili in un coro.
So di non esserti nato accanto o remoto
già ai passanti; e questo è giusto.
Sopra una salsedine che sale
in piramidi azzurrali, dentro le volte umide dei cieli,
le tue son pronte.
Non so che vita rade
ed umilmente ti chiese sul monte
quando erano chiuse le porte sulle impronte.
Un’azzurra libera città diafana ora appare.
Era forse lieta la tua morte.
Ma da questa parte verso un gregge
inclina libera la verità sognante
o lievemente cade.
Non so con qual arte
con qual rete (non so più i veli)
sia stata un limite la bellezza
tua che fu sì prorompente.
I denti aguzzi sono come la tua fame.
Una verità nascente
era di linee umida una parte.